Conflitto di classe in camera da letto

by Editore | 28 Maggio 2011 6:26

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Ci sono tutti gli elementi essenziali del repertorio melodrammatico in The Housemaid di Im Sang-soo, regista di punta della “nouvelle vague” coreana assieme a Kim Ki-duk e Park Chan-wook (già  arrivato in Italia con un altro film ad alto tasso erotico: La moglie dell’avvocato). Ovvero l’amore impossibile, il conflitto tra classi sociali diverse, un luogo fisico centrale per lo svolgimento dell’azione, uno stile. Contro le abitudini del regista, che preferisce i soggetti inediti, si tratta del remake di un film del 1960, Hanyo, celebre in Corea e che ha profondamente influenzato la sua generazione.

Una giovane divorziata è assunta come cameriera in una casa di ricchi, già  genitori di una bambina e in attesa di due gemelli. Belloccio e arrogante, il padrone ne fa la sua amante. Quando si scopre che anche lei è incinta, la suocera “upper class” dell’uomo tenta in ogni modo di farle perdere il bambino “di troppo”. Con presenze più sommesse, sono in scena altri due personaggi femminili: una vecchia governante inaridita dalla rassegnazione, stupita per la capacità  della giovane cameriera di assumere il proprio destino, e la bambina dei padroni, che osserva quanto avviene nel mondo dei “grandi”.
Se il potere distruttivo della sessualità  è da sempre il nocciolo duro del mélo, il cineasta preme con insolita consapevolezza sul tasto dei rapporti di potere e sulla prevaricazione che i “ricchi più ricchi” – direbbe Bauman – esercitano sui “poveri più poveri”, giocandosi aforismi in bocca ai potenti della terra («sono i poveracci che possono avere un solo figlio») e mostrando come la loro rapacità  vada di pari passo con le asfissianti convenzioni che li tengono imprigionati. Ancora una volta il predominio si esercita sul corpo femminile: quello della bella e sensuale Jeon Do-joun (già  migliore attrice a Cannes per Secret Sunshine), interprete di una serva più in sintonia con i propri sentimenti, più libera e coraggiosa dei padroni, che decide di tenersi il bebé malgrado tutte le pressioni cui è sottoposta.
Se al film si può imputare un difetto, tra i non pochi pregi, è proprio l’intenzione fin troppo dimostrativa. La casa dei padroni è lussuosa come un castello e protetta quanto un fortino; il maschio vi domina come un signore antico, tra i calici di vino ricercato e la musica di Beethoven. In questo scenario, pian piano, i fatti prendono l’andamento di una storia di fantasmi che, tra la governante silenziosa e l’epilogo fiammeggiante in aperto flirt col cinema orrorifico, evoca l’Alfred Hitchcock di Rebecca la prima moglie. Qualcuno ha rimproverato al film, elegantemente impaginato e traversato da tentazioni estetizzanti nelle scene di sesso, di posare su personaggi e ambienti uno sguardo gelido, privo di emozioni. Anche questa, però, è una delle strategie classiche del melodramma nella sua versione più raffinata, in antitesi al gusto “popolare” delle fiction televisive.

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