Da Naipaul a Le carré guerra e pace tra scrittori

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La drammatica e storica faida tra Paul Theroux e Sir V. S. Naipaul si è chiusa domenica scorsa dove era cominciata, a Hay-on-Wye, il delizioso paesino del Galles, sotto le Black Hills care a Chatwin, sede ogni anno di un affollato festival letterario – o dovrei dire “il” festival letterario, visto che è stato il primo e il modello di tutti.

Pronubi l’atmosfera affettuosa del posto e i buoni uffici di Ian McEwan, è successo dunque che la più lunga e sanguinosa faida letteraria della storia recente (il termine inglese sarebbe “feud”, che spiega il dizionario sarebbe «un litigio amaro e spesso prolungato, o uno stato di inimicizia») sia arrivata timidamente a conclusione dopo quindici anni di ostilità . Riempiendo di felicità  una parte del pubblico, deludendo gli appassionati del fenomeno dei literary feuds, molto caro agli inglesi, che negli ultimi anni ne hanno visti esplodere non pochi.
Tra Sir V. S. Naipaul, il premio Nobel celebre, oltre che per le sue opere, anche per il cattivo carattere, per l’arroganza e per le risse con intervistatori e giornalisti che caccia al primo intoppo (ma chi avesse letto una mia recente intervista con lui da Venezia ricorderà  forse che si dichiarava stanco, pieno di buoni sentimenti, e che appariva meno aggressivo del solito) e Paul Theroux, un brillante scrittore di viaggi, l’amicizia era nata nel 1966 in Uganda, quando Naipaul, già  noto per Una casa per Mr Biswas, prese il giovane scrittore sotto la sua ala protettiva, e lo portò con sé a Londra, presentandolo al mondo letterario. Ma Paul Theroux, con gli anni, e, aggiungo io, non a torto, era diventato critico del lavoro di Naipaul, e Naipaul aveva preso le distanze dal suo protetto. Con un colpo finale quando Theroux aveva trovato in un catalogo di libri vecchi delle copie di alcune prime edizioni dei suoi i libri che aveva dedicato “con amore” a Naipaul e alla sua prima moglie. Unica consolazione, che erano venduti a 1500 sterline. Con crisi finale a Hay-on-Wye 1996 quando Naipaul si rifiutò di salutare Theroux mentre erano di scena con Salman Rushdie. E apoteosi della crisi quando Theroux pubblicò, nel 1998, Sir Vidia’s Shadow, un ritratto al vetriolo dell’ex amico, descritto come sadico, puttaniere, ingeneroso.
Pace, dunque, miracolosamente, a Hay-on-Wye. E chissà  che questo sentimento di distensione non ricada a slavina sulle altre faide letterarie meno rumorose ma non meno radicate. Per esempio quella a distanza, dopo la pubblicazione di I versi satanici, tra Salman Rushdie e John le Carré. Il papà  di Smiley aveva lamentato l’accusa di antisemitismo mossagli dagli “zeloti del politically correct”. Rushdie non aveva trovato di meglio che auspicare che le Carré fosse intervenuto con altrettanta forza quando lui era stato condannato dalla fatwa e lo aveva accusato di simpatizzare per i fondamentalisti islamici, definendo le Carré un “analfabeta”, un “pompous ass” (un cretino pieno di sé? Fate voi). Più corretto e britannico, le Carré suggeriva che Rushdie fosse meno arrogante e meno supponente…
La faida Rushdie /le Carré ha occupato le pagine dei giornali nel 1997 con una valanga di lettere, e senza vincitori né vinti – tranne il buon senso che suggerisce come le Carré non sia certo antisemita e non si sarebbe mai schierato dalla parte dei persecutori di Rushdie. Mentre si limitava, assieme a molti altri, a cercare di convincere Rushdie a non mettere a rischio chi stampava e vendeva il suo libro rinunciando all’edizione in paperback. E non si sa nulla di successive rappacificazioni.
E che dire dal litigio Julian Barnes / Martin Amis? Di quando cioè, nel 1995, Julian Barnes, autore colto, intelligente e spiritoso decise di troncare i rapporti con il suo fraterno amico Martin Amis, perché aveva cambiato agente letterario? Che c’è di male? Dov’è il trucco? Semplice. Il vecchio agente di Martin Amis era la signora Barnes. Inimicizia per reddito cessante, si potrebbe dire. Certo è che Martin Amis, passato sotto l’ala protettiva dell’americano Andrew Wylie, detto lo sciacallo, il più potente agente letterario del mondo, ha concluso un vero affare, che gli ha permesso di rifarsi i denti (notizia stupefacente, su cui lo scrittore ha fatto commenti imbarazzanti per le orecchie dei suoi ammiratori) e di conquistare anticipi a sei zeri.
E fuori dal Regno Unito, vogliamo ricordare l’occhio nero di Gabriel Garcà­a Mà¡rquez prodotto da un diretto del suo carissimo amico Mario Vargas Llosa? Correva l’anno 1976, e c’era di mezzo (si diceva) una donna. Vero, ma non in senso tradizionale. La donna era la moglie di Vargas Llosa, Patricia, che lo scrittore peruviano aveva lasciato (salvo poi recuperarla) per una bella svedese: e Patricia aveva cercato conforto e amicizia in Gabriel Garcà­a Mà¡rquez e sua moglie Mercedes. Di qui, pretestuosamente, lo scazzo. Anche se poi ci saranno, nelle biografie dei due grandi sudamericani, divergenze politiche ed ideologiche più forti dei pretesti dell’occhio nero.
E ancora? Jonathan Franzen non ha risparmiato Philip Roth accusandolo di narcisismo e aggiungendo: «Abbiamo motivi personali di acredine, ma sono questioni private». Potremmo poi ricordare l’inimicizia tra Gore Vidal e Truman Capote (di cui il primo diceva «ha trasformato la menzogna in una forme d’arte – minore…), tra Lillian Hellman e Mary McCarthy (che, di nuovo, diceva della sua collega che «ogni parola che scrive è una bugia, incluse le “e” e gli articoli»), tra Hemingway e Fitzgerald (dove la vittima innocente e generosa era quest’ultimo), e, arretrando ancora nel tempo, tra Byron e Keats. Oltre che, naturalmente, quale che sia la verità  storica, tra Shakespeare e Marlowe: che a noi piace pensare nei modi brillanti immaginati da Tom Stoppard per Shakespeare in love.

 


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