Fisarmonica meneghina
Con una pratica più da eterotopia pragmatica che da grandi utopie. Anche perché la città e i suoi cambiamenti sono stati molto poco raccontati e troppo spesso urlati. Come per la fisarmonica che nel dilatarsi alza le note, la visione della città è stata spesso polarizzata tra chi vedeva solo i grattacieli e i campi rom senza nulla in mezzo. Una divaricazione che ha reso incomunicanti l’alto e il basso delle gerarchie sociali, le nuove elite dei flussi e della finanza e i ceti medi entrati in sofferenza o i nuovi soggetti cresciuti dentro la terziarizzazione, siano essi creativi o immigrati neoproletari dentro il ciclo della manutenzione urbana.
Oggi la politica ha il compito di richiudere lo strumento con cui suona il suo spartito, la sua “fisarmonica”. Suonando una musica meno urlata. Non dovrebbe essere difficile. A condizione che si parta dal riconoscere e riconoscersi in ciò che è cambiato ma che è già nei cinque cerchi della città . Riconoscendo che la grande Milano c’è già : si chiama città infinita. Non è cresciuta come stava scritto nei manuali di urbanistica ma è dalla progettazione dell’area metropolitana, dalla connessione tra città e contado della fabbriche e degli outlet, dalla modernizzazione delle reti di trasporto che connettono queste due sfere, che il futuro sindaco dovrà cominciare. Pensandosi come sindaco che tiene insieme la città infinita. Magari imparando da quel Salone del Mobile in cui città e contado già dialogano da sempre. Riconoscere e tenere assieme le mille imprese che fanno internazionalizzazione e viaggiano sulle reti lunghe con il pulviscolo del capitalismo molecolare, e la città dei servizi alle imprese, come già oggi fa Assolombarda.
Riconoscere che sul fronte della rappresentazione della città occorre tenere assieme la dimensione dell’impresa, l’urbanistica, il design e i nuovi soggetti creativi in un melting-pot culturale ed economico come già fa la Triennale. Riconoscere che Milano è città Anseatica, reticolare e aperta al mondo, con cui comunica attraverso due grandi porte: la Fiera che da Rho guarda a Malpensa e ai flussi di merci e persone verso le grandi regioni economiche del globo e la Casa della Carità , porta stretta da cui transita e arriva la nuova moltitudine che porta la vibratilità del margine sociale. Da includere e non da segregare.
Imparando da Via Padova dove la società ha scelto di guardare in faccia il conflitto inter-etnico usando lo strumento antico della festa di tutte le associazioni compresi i commercianti del quartiere contro l’idea del coprifuoco o peggio del “rastrellamento”. Imparando dal Fondo famiglia e lavoro della Curia Ambrosiana che ha scelto di mettere al centro una nuova questione sociale fatta non solo di marginali quanto della fragilità di ceti che fino a poco tempo fa erano al di qua della linea di povertà . Non si può avere la presunzione di rappresentarsi attraverso l’Expo senza fare società .
Lo spazio di posizione di Milano è l’essere porta sulla globalizzazione per il Paese. È magnete dei servizi e della finanza per un capitalismo della megalopoli padana che per crescere ha bisogno di grandi reti come l’Alta Velocità il cui braccio verso Venezia è ancora lungi da venire.
Mettendo in connessione queste risorse, che già ci sono, Milano potrà rappresentarsi come metropoli e mobilitarsi attorno all’Expo, che non è questione di una parte politica ma scadenza per tutto il Paese. Un Expo che non è più come nel ‘900 celebrazione di una potenza del capitalismo in ascesa, come ancora è stato Shanghai, ma potrà essere occasione di riflessione su un capitalismo che assume l’idea di limite allo sviluppo, di green economy per sfamare e continuare un futuro del pianeta.
Incrociando l’ipermodernità che viene avanti e le grandi questioni sociali che questa pone Milano può tornare ad indicare la strada da percorrere al Paese. Purché la politica torni ad essere costruttrice di legami sociali che tengano assieme le cinque città che stanno in una.
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