Gli ultimi 40 minuti di Bin Laden

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WASHINGTON — Quaranta minuti per liquidare Osama e tanti sospetti. La fine di Osama Bin Laden è iniziata molto prima che i commandos americani lo spazzassero via a colpi di mitra all’interno di un vistoso palazzo a Abbottabad, in Pakistan. La prima traccia E’ il 2007, gli americani hanno in mano a Guantà¡namo e, nelle prigioni segrete della Cia, due uomini chiave. Khaled Sheikh Mohammed e Abu Faraj al Libi. La coppia di terroristi, sottoposta al waterboarding, parla. E gli 007 ricavano le indicazioni su un probabile corriere usato da Osama. E’ poco ma è un punto da dove partire. Due anni dopo scoprono la zona che frequenta. È nel Nord del Pakistan. Il team della Cia, conosciuto come «The Cadre» , composto da novellini e vecchi agenti richiamati dal servizio, analizza le informazioni. Serve pazienza. Che sarà  premiata solo nell’agosto 2010, quando il campo di ricerca si restringe su Abbottabad, a 50 chilometri dalla capitale Islamabad. La filatura del corriere porta gli agenti ad un complesso costruito nel 2005, circondato da alti muri e costato 1 milione di dollari. Ci vive qualcuno di importante. Ma estremamente riservato. Non ha telefono, né collegamento Internet. Si vede di rado e poi— cosa strana — invece che buttare l’immondizia la brucia. La sorveglianza si fa più intensa. La Cia ricorre ai satelliti e probabilmente a velivoli spia. Quell’edificio costruito con una pianta a piramide nasconde un segreto. Il sospetto In settembre l’intelligence ritiene di avere indizi sufficienti per dire che l’ospite potrebbe essere proprio Osama. Ma i ripetuti falsi avvistamenti e il timore che tutto salti inducono gli 007 alla cautela. La notizia arriva alla Casa Bianca. E a partire dal 14 marzo, il presidente Obama presiede almeno 5 riunioni dedicate al dossier. Valutazioni politiche si intrecciano con quelle degli agenti. L’ultimo meeting, quello decisivo, si svolge alle 8.20 di venerdì (ora americana), poche ore prima che Obama raggiunga l’Alabama. Il presidente autorizza l’operazione e decide di tenere all’oscuro i pachistani. La preparazione La missione è affidata allo speciale team antiterrorismo dei Navy Seals. Sono conosciuti come i «DevGru» . La loro base è in Virginia, lavorano gomito a gomito con la Cia. Sono i «muscoli» o anche i «cavernicoli» . Grazie alle foto scattate dai satelliti hanno ricostruito una copia dell’edificio di Abbottabad. Provano e riprovano per non sbagliare le mosse. Cronometrano i tempi, ipotizzano gli imprevisti e le contromisure. I loro compagni impersonano i «cattivi» . Gli 007, intanto, sorvegliano la residenza. E accertano che 10-12 giorni prima l’ospite è tornato nella villa. Bisogna agire prima che sia troppo tardi. L’assalto E’ notte fonda in Pakistan quando quattro elicotteri — una versione speciale dei Blackhawk — entra nello spazio aereo pachistano. La provenienza è tutt’ora un mistero. A bordo ci sono i DevGru incaricati dell’assalto e le unità  d’appoggio. Altri velivoli forniscono la copertura. Non è chiaro come i pachistani non vedono quanto sta accadendo. Gli hanno accecato i radar? Fanno finta di nulla? A Washington sono attive tre situation room. Una è alla Casa Bianca con Obama. La seconda è nella sede Cia di Langley con Leon Panetta. La terza in Afghanistan dove c’è il generale McRaven, responsabile delle operazioni speciali. Tutti possono seguire via audio e video quello che accade a migliaia di chilometri di distanza. Alle 14 di domenica il presidente rivede gli ultimi dettagli con la sua squadra. Il piano prevede che due elicotteri calino le cime lungo le quali devono scendere i commandos. Ma uno dei Blackhawk ha un’avaria, è costretto ad atterrare. Verrà  distrutto per impedire che cada in mano ostili. Entra in scena un terzo elicottero. L’incidente può compromettere tutto. E’ un momento drammatico, qualcuno ripensa alla sconfitta di Mogadiscio. Blackhawk down. I Seals vanno avanti lo stesso. Si aprono la strada nel complesso diventato un fortino: granate stordenti, raffiche dimi- tra e poi il grido «clear» , pulito, per segnalare via libera. I qaedisti rispondono con i Kalashnikov. Osama, che occupa con i suoi il primo e il secondo piano, non ha una grande scorta. Con lui ci sono il figlio e tre uomini, le Guardie nere. Forse non sospettava che potessero scoprirlo. Si sente perduto. Le fonti americane sostengono che cerca di farsi scudo con la moglie. I DevGru lo «terminano» con due proiettili al capo. I militari uccidono i cinque (ma altre fonti Usa rettificheranno più tardi che la donna ammazzata non sarebbe la moglie), quindi recuperano documenti interessanti e un computer. Il rastrellamento è finito. E i Seals comunicano: «Abbiamo Geronimo» . Il Pentagono, come nome in codice per il terrorista, ha scelto quello del famoso capo degli Apaches. Un guerriero indomabile che non meriterebbe questo accostamento. Da Washington ordinano di lasciare la zona portandosi dietro il cadavere del nemico. Sono le 3.55 ora americana. Nella situation room alla Casa Bianca la tensione è spezzata da un applauso. Nel post-raid le autorità  Usa pasticciano un poco: prima si lasciano scappare che la missione era mirata ad uccidere, poi cambiano e sostengono che sono stati costretti a farlo per la resistenza incontrata. Il rientro Gli elicotteri lasciano Abbottabad ma intanto i pachistani sono in allarme. I caccia sono pronti a intervenire per intercettare gli intrusi ma sono fermati in tempo. Gli americani hanno informato l’alleato a cose fatte. Non si fidavano. Il cadavere di Bin Laden è trasferito sulla portaerei Carl Vinson e inumato in mare. Alle 19.01 Obama è informato che è «altamente probabile» che si tratti del terrorista. Alle 11.35, il presidente è in tv ad annunciarlo. Ieri mattina i test del Dna (lo hanno comparato con quello di una sorella) tolgono gli ultimi dubbi. A Washington si celebra ma intanto ci si chiede come i pachistani non abbiano potuto sapere. Altre fonti non escludono che Bin Laden sia stato venduto. C’era una taglia di 50 milioni sulla sua testa. Oppure i suoi protettori lo hanno sacrificato in base ad un patto segreto. Quanti conoscono la zona riferiscono che è incredibile che l’Isi— il servizio di Islamabad — abbia potuto «mancare» la presenza del ricercato. E i testimoni aggiungono che nel compound venivano spesso due misteriosi pachistani. La «piramide» di Abbottabad non era certo il nascondiglio discreto. Ma forse a Bin Laden non importava troppo: era sicuro che oltre alla fortuna c’erano degli «angeli neri» a proteggerlo. 


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