Il cibo sprecato

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Si munge, si zappa, si alleva. Ma sempre più spesso sono sudore ed energia buttati via. Metà  della frutta e della verdura coltivate fa capolinea, per un motivo o per l’altro, in discarica. La stessa fine fa il 30% dei cereali. Il bilancio finale è da mal di testa: ogni anno, secondo lo Swedish institute for food and technology, il genere umano getta in pattumiera 1,3 miliardi di tonnellate di prodotti ancora perfettamente commestibili. Valore stimato, per difetto, ben oltre i 100 miliardi di euro. Quanto basta per riempire 79 milioni di Tir che messi uno dietro l’altro formerebbero una colonna lunga 959mila chilometri, quasi tre volte la distanza tra la Terra e la Luna. E soprattutto una quantità  sufficiente per ridurre a zero il numero di persone (oggi un miliardo) che soffrono la fame: tra cartoni di latte scaduti, insalata marcita nel frigo e uova arrivate oltre la data di scadenza, i soli consumatori occidentali buttano nel pattume di casa 222 milioni di tonnellate di cibo ogni anno. Una cifra uguale all’intera produzione alimentare dell’Africa subsahariana. 
Chi spreca cosa. Il mondo, visto attraverso la lenti di questa Caporetto della tavola globale, è piatto. Differenze geografiche e gap economici contano poco: i paesi più ricchi, certificano i dati dell’istituto svedese per la Fao, perdono per strada 670 milioni di tonnellate di carne, frutta, pesce e verdura ogni anno. Quelli in via di sviluppo seguono a ruota a quota 630 milioni. Le cifre fotografano però due realtà  ben differenti. In Europa e Stati Uniti ben più del 40% degli sprechi arriva tra gli scaffali dei negozi e il frigorifero di casa, due aree dove la filiera alimentare si trasforma in una specie di colabrodo. Il primo buco è al reparto acquisti dei supermercati. Dove ogni prodotto appena ammaccato o fuori dai canoni estetici imposti dalla dura legge del marketing tira dritto per la discarica. Un esempio? «Il 25-30% delle carote prodotte nello Yorkshire viene scartato perché l’Asda, la catena inglese che le acquista, non tollera esemplari che non siano perfettamente dritti o di un arancione brillante», ricorda il guru ecologista inglese Tristam Stuart nello studio della Fao.
La seconda tappa nella via crucis dello spreco è nelle cucine dei consumatori europei e americani, abituati a intasare frigo e congelatori di ogni ben di Dio, in quantità  superiori alle loro esigenze caloriche. Morale: a fine anno – calcola lo Swedish Institute for Foord and Technology – ognuno di loro butta via tra i 95 e i 115 chili di cibo. Una cifra che dal 1974 ad oggi, è aumentata del 50%.
In Africa e nelle aree più povere del sud Est asiatico va in onda un altro film: la voragine, qui, è nella parte intermedia della filiera, dove svanisce nel nulla – deperendo – quasi la metà  degli alimenti destinati a non finire in un piatto. «La colpa è di magazzini inadeguati, delle temperature estreme e di tecnologie per la conservazione anti-diluviane», dicono gli analisti dell’istituto di Goteborg. Passato questo ostacolo però la strada verso la tavola è spianata. Una volta arrivato nella dispensa di casa, il cibo in Africa è sacro, tanto che a questo punto se ne perde un massimo di 6 chili l’anno a testa, un ventesimo dei ricchi consumatori occidentali.
Il costo economico. Il “buco nero” dello spreco alimentare ha un costo economico e sociale altissimo. Ogni nucleo familiare americano di quattro persone, calcola uno studio dell’Università  dell’Arizona, butta via frutta, verdura, carne uova e latte per un valore totale di 1.375 dollari l’anno. Il 40% del cibo prodotto oltreoceano ballonzola tra gli scaffali degli ipermercati e gli armadietti della cucina per venir poi spedito a stretto giro di posta alle discariche dove gli scarti alimentari – secondo l’Enviromental Protection agency – rappresentano ben il 19% dei rifiuti. Stessa musica a Londra e Parigi. In Gran Bretagna ogni anno 14 miliardi di sterline di cibo (17,5 miliardi di euro) dribblano la tavola per finire in pattumiera con un costo stimato in 233 sterline a testa. Uno spreco più difficile da accettare in un paese dove 4 milioni di persone – secondo le autorità  sanitarie – faticano a mettere assieme un pranzo al giorno. In Francia, secondo una recentissima indagine dell’Agenzia nazionale per l’ambiente e l’energia, il 7% dei prodotti alimentari acquistati viene gettato dopo qualche tempo senza nemmeno essere scartato dalla confezione originale.
I soldi non sono però l’unica unità  di misura di questo corto circuito sulle tavole mondiali. L’altra faccia della medaglia è il suo impatto ambientale. Il 2% dei consumi energetici americani è utilizzato per preparare cibo che non verrà  mai mangiato. Detto così sembra poco. Ma si tratta di una quantità  annua di petrolio pari a 70 volte quello riversato nel Golfo del Messico dal disastro della Deepwater Horizon. Un quarto dei consumi d’acqua globali serve per far crescere frutta, verdura e carne destinati a uscire dalla filiera senza essere consumati. «Una quantità  sufficiente a garantire 200 litri a testa al giorno a 9 miliardi di persone», calcola Stuart. Ogni tonnellata di cibo perso lungo la filiera genera 4,2 tonnellate di CO2 e secondo il think tank britannico Lovefoodhatewaste ridurre a zero gli scarti della tavola in Gran Bretagna «garantirebbe lo stesso beneficio ecologico dell’eliminazione di un quarto delle macchine dalle strade del paese».
Il caso Italia. Venti milioni di tonnellate di prodotti perfettamente commestibili buttati lungo il percorso tra il campo o la stalla e i supermercati tricolori, per un valore di 12 miliardi di euro circa. Un’altra quantità  imprecisata (ma per almeno altri 25 miliardi, secondo Coldiretti) uscita sana e salva dagli scaffali della grande distribuzione ma solo per finire la sua carriera in pattumiera. L’Italia è riuscita per ora a difendere senza troppa difficoltà  il suo ruolo di superpotenza nella non gloriosissima classifica degli sprechi alimentari. Il 3,3% della produzione agricola nazionale si è arenato nel 2009 al primo gradino della filiera industriale, calcola Last Minute Market, spin off della facoltà  d’agraria di Bologna che si occupa di recupero di cibi scaduti. Quasi 18 milioni di tonnellate di frutta e verdura rimasti sull’albero o in campo, per un valore complessivo vicino ai 6,5 miliardi. 
L’emorragia prosegue al piano superiore, lungo le linee di produzione dell’industria. Qui si perdono per strada altri 2,3 milioni di tonnellate di prodotti lavorati bruciando altri 2 miliardi. Tra i corridoi dei supermercati scadono o vengono scartati prodotti per 1,5 miliardi. Una quantità  di cibo sufficiente a garantire ogni giorno 1.590.142 pasti completi, quanto basta per garantire prima colazione, pranzo e cena a 636mila persone al dì. «In un mondo a risorse limitate e dove non si riesce ancora a sfamare tutti, il cibo smarrito è una priorità  trascurata», ricorda in conclusione il rapporto della Fao. In Italia, purtroppo, è lo stesso.


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