Il fantasma della Dracma

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Ha più di tremila anni di vita. Da nove anni è andata in pensione, sotto il peso degli acciacchi accumulati in decenni di battaglie valutarie. Tutti pensavano che non se ne sarebbe più sentito parlare. E invece il fantasma della dracma, la moneta più antica d’Europa, è rispuntato dal passato. Mettendo i brividi al suo erede e a tutto il vecchio continente. Il primo a rievocarne lo spettro – un paio di settimane fa – è stato Der Spiegel: «L’Eurogruppo si riunirà  stasera per esaminare la richiesta della Grecia di uscire dall’euro e tornare alla vecchia moneta», aveva annunciato il sito online del quotidiano tedesco. L’ecumenica valanga di smentite seguita all’annuncio non è bastata a rispedire la dracma nei libri di storia: Atene sta vivendo la crisi più dura dall’uscita della dittatura. L’euro-euforia seguita all’ingresso nella moneta unica e alle Olimpiadi 2004 è un ricordo del passato. E la nostalgia della dracma, come un torrente carsico, continua a riaffiorare dove meno te l’aspetti.

L’ultima Cassandra, per dire, è spuntata addirittura a Bruxelles, dove lavora come commissario alla pesca, e ha il passaporto ellenico, il volto allungato e il bel sorriso di Maria Damanaki: «La Grecia non ha scelta – ha detto la compagna di partito del premier George Papandreou rifilando l’ennesimo elettrochoc ai mercati valutari –. O si fa l’accordo con i creditori o non abbiamo altre alternative che tornare alla dracma».
Fantafinanza? La politica, naturalmente, dice di sì. «Sarebbe un suicidio economico», il laconico commento di Joerg Kramer, capoeconomista della Commerzbank. Papandreou – che già  ha le sue belle gatte da pelare senza bisogno di scomodare l’ingombrante Amarcord della vecchia valuta – è ancor più tranchant: «Basta! Lasciateci lavorare in pace. Sappiamo di avere di problemi, ma l’euro è la conquista più importante del paese nel dopoguerra. E la nostra uscita non è all’ordine del giorno».
La pattuglia dei nostalgici della moneta di Aristotele – Atena su un lato e un’inquietante civetta sull’altro – è però un piccolo esercito che ogni giorno vede ingrossarsi le sue fila. E non è difficile capire il perché: «Fino a due-tre anni l’Europa era per noi una sorta di madre premurosa», dice Yannis Stournaras, presidente della Fondazione di ricerca economica ellenica. Un bancomat prodigo di quegli aiuti che hanno fatto da carburante alla modernizzazione del paese.
Oggi è cambiato tutto. Certo da Bruxelles (e dal Fondo monetario) sono arrivati i 110 miliardi di aiuti necessari per evitare il default. Ma la madre generosa degli anni scorsi si è trasformata ora in una matrigna malvagia. «Provi a chiedere per la strada alla gente cosa pensa dell’Europa…», scherza Stournaras. Risposta facile: nell’immaginario quotidiano del cittadino greco la Ue significa stipendio ridotto, più ore di lavoro, pensione ritardata (e sforbiciata) e disoccupazione alle stelle. Più un’economia messa in ginocchio dal super-euro mentre il pil della Germania, libera dalla concorrenza delle svalutazioni mediterranee, galoppa a ritmi da tigre cinese.
Un inferno, insomma. Sul cui sfondo – come dice Stournaras – la millenaria valuta nazionale «ha avuto gioco facile a riabilitarsi come vessillo di libertà  e indipendenza», specie oggi che i grandi benefattori stranieri iniziano a stringere i cordoni della borsa: «L’Fmi non darà  nuovi aiuti a giugno senza garanzie della Ue», ha fatto sapere il presidente dell’eurogruppo Jean Claude Juncker gettando benzina sul fuoco dell’impopolarità  degli organismi internazionali.
La dracma-mania, insomma, ha trovato terreno fertile per mettere radici. E nessuno si è sorpreso più di tanto visto che lo stesso sta succedendo in Portogallo – dove il piano lacrime e sangue imposto dalla Ue ha fatto riaffiorare la voglia di scudo – e in Spagna con le pesetas. Un effetto domino nel ventre molle dell’euro che rischia prima o poi di resuscitare dagli archivi numismatici perfino la nostra cara vecchia lira. «Se la nostalgia del passato si traducesse in politica con un ritorno di fiamma del populismo – vaticina il guru Nouriel Roubini – è possibile che nell’arco di cinque anni la Grecia torni davvero alla dracma».
Facile a dirsi, difficile a farsi. Il primo problema è tecnico, dicono i giuristi. Nel senso che l’architettura costituzionale della Ue non prevede un percorso legale per uscire dall’euro. Il secondo, ben più grave, sono le conseguenze sociali di una scelta di questo tipo. Cosa succederebbe se Atene decidesse arbitrariamente di rimettere in circolazione la sua vecchia divisa dalla sera alla mattina? «Una catastrofe», dicono i tecnici del ministero delle finanze guidato da George Papaconstantinou che – tanto per non farsi trovare impreparati – hanno provato a simulare a colpi di algoritmi il ritorno al passato.
Risultato: uno scenario apocalittico. La dracma tornerebbe sul mercato con una svalutazione del 50% circa rispetto al valore attuale dell’euro, spingendo il rapporto debito/pil all’impressionante livello del 200%, l’inflazione decollerebbe a tassi a due cifre. Senza contare gli effetti collaterali come la corsa preventiva al ritiro dei depositi da parte dei correntisti, computer e registratori di cassa da resettare e l’infinita serie di cause legali con i creditori destinata a durare decenni. Scende da Sudamerica, verrebbe da dire, non fosse che l’America Latina – in questo momento – gode di salute e stabilità  finanziaria molto migliori di diversi paesi Ue. Al punto che il Brasile si è candidato, in un corto circuito del colonialismo, a lanciare un salvagente al Portogallo in difficoltà .
«L’Europa non ha scelta – dice Kramer –. Costa molto meno aiutare la Grecia ad evitare il default che farsi carico di un’eventuale resurrezione della dracma». A pagare il conto non sarebbero infatti solo i cittadini ellenici. Una moneta svalutata del 50% significherebbe un buco di 15 miliardi per la Bce e due voragini da 13 e 10 miliardi rispettivamente per le banche tedesche e francesi. Un eventualità  che in Grecia non scandalizzerebbe nessuno («giusto che paghino anche loro» auspicano a mezza bocca molti ateniesi) ma che a Bruxelles e Washington nessuno tiene davvero in considerazione. «L’Europa è una strada a senso unico – assicura Papandreou – alla dracma non si torna». Il problema, con l’aria che tira, è convincere i greci che è davvero giusto così.


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