La battaglia più difficile è il dialogo

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Ma la parola «guerra» vuol dire molto di più, e perciò George W. Bush la usò, e perciò la dichiarò usando un termine ben più astratto di terrorismo: terrore. La guerra al terrore, che è stato il paradigma della storia globale negli ultimi dieci anni, dall’ 11 settembre del 2001 al 1 ° maggio del 2011, non era solo fatta di operazioni militari su larga scala, comprendenti anche occupazione e conquista di territori La guerra al terrore è stata anche un conflitto culturale, religioso, etnico, filosofico, in cui si è creduto di interpretare la fase finale dello scontro secolare tra Islam e Occidente. Una sfida da molti ritenuta mortale, al punto che uno dei due contendenti doveva soccombere perché il duello potesse davvero finire. Essa si basava su una identificazione più o meno esplicita, talvolta reale ma più spesso immaginata, del mondo arabo con l’islamismo fondamentalista. Nel momento in cui la morte di Bin Laden, con l’eccezione dei fanatici di Hamas e degli assassini del nostro Arrigoni, non suscita neanche una lacrima nella strada araba, né nel Maghreb liberato dai tiranni né nel Mashrek ancora sotto il tallone dei despoti, è evidente che quella guerra si conclude: i destini dell’Islam si sono ormai separati da quelli di Al Qaeda. La storia non è finita, men che meno la storia del mondo arabo. Ma quella storia è finita. Eppure covava sotto le ceneri della Guerra fredda da tempo, da molto prima delle Due torri. Almeno dalla sconfitta sovietica in Afghanistan, che infatti fu il battesimo del fuoco per il combattente Osama. Vent’anni fa comparve per la prima volta in un articolo l’espressione «scontro di civiltà » : a scriverlo fu il grande islamista Bernard Lewis, e il saggio era titolato non a caso Le radici della rabbia islamica. Quando poi Samuel P. Huntington canonizzò quel concetto nel suo celebre libro si era già  nel ’ 96, e le «linee di faglia tra le civiltà » , fatte di identità , di religione e cultura, invece che di ideologia e di interessi geo-strategici com’era stato nel lungo confronto con il comunismo, apparivano a tutti molto chiare: si allungavano dalle anse del Tigri e dell’Eufrate fino alla linea Durrani, che divide le aree tribali dell’Hindu Kush dall’ex India britannica: Iraq e Afghanistan, non a caso l’alfa e l’omega della guerra al terrore. Non si può dire che quella guerra sia stata inutile, o inefficace, nonostante gli errori di cui si è macchiata, il sangue che ha versato, l’odio che ha generato e la divisione dell’Occidente che ha provocato. Anche per questo Obama non la dichiarerà  formalmente finita, perché lui è il tipo di condottiero che Enzensberger chiamerebbe «eroe della ritirata» , che non perde tempo a cercare di emendare il passato ma lo usa per costruirsi una exit strategy nel presente, per esempio per andarsene presto da Kabul: un leader anti-ideologico interessato solo a ciò che funziona. Ed è indiscutibile che un bel po’ del lascito di George W. ha funzionato. Gli elicotteri del commando che ha ucciso Osama, per esempio, si sono alzati in volo dall’Afghanistan occupato. E le informazioni cruciali per scovare il corriere che ha portato fino al covo sono state strappate ai detenuti di Guantanamo, con o senza il waterboarding (prigione che, tra l’altro, Obama non ha ancora chiuso come aveva annunciato). Più in generale, la ventata dei neo-conservatori, che ha dato un pensiero alla war on terror in America e che tanti seguaci ha seminato perfino in Italia, una cosa buona l’ha fatta: spazzare via quel filone di «isolazionismo» sempre presente nella storia d’America, che può essere più pericoloso per la pace nel mondo perfino degli eccessi dell’interventismo. In fin dei conti, il Nobel per la pace Obama ha vinto la sua guerra qualche settimana prima di ordinare l’uccisione di Bin Laden, e l’ha vinta proprio quando, dopo molte titubanze, ha scelto di intervenire nella crisi del Maghreb dalla parte dei giovani in piazza piuttosto che dalla parte dei regimi amici, nonostante «idealisti» come Cheney e «realisti» come Kissinger gli suggerissero di salvare Mubarak. La «rabbia islamica» , di cui scriveva Lewis, per la prima volta si rivolgeva non contro l’Occidente ma contro i dittatori di casa propria; chiedeva regimi politici all’occidentale, invece di bruciare le bandiere dell’America. Obama ha avuto la prontezza di capirlo, mollando il raìs egiziano. E forse anche noi italiani oggi dovremmo capire meglio perché spariamo sul raìs libico. La dottrina Obama, che porta i segni dell’interventismo liberale di consiglieri della prima ora come Susan Rice e Samantha Power, testimoni l’una del genocidio del Ruanda e l’altra del massacro dei Balcani, è ancora incerta e contraddittoria: si ferma sulla soglia dei regimi o troppo amici (Yemen e Bahrein) o troppo pericolosi (Siria e Iran). Però dà  un’alternativa ai giovani arabi: per il loro «risveglio» non è necessario buttarsi tra le braccia dei fanatici con la barba lunga. E la dà  anche ai giovani americani scesi per le strade a festeggiare: per vincere il terrorismo non è necessario combattere l’Islam.


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