La città  feroce

by Editore | 13 Maggio 2011 7:17

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Perché? L’unica ragione di chi le ha costruite è che la gente si chieda il perché, dato che anche in quella pendente i pianiabitativi sono orizzontali. POI chi entra in città  per uno stradone a curve larghe va per il paese delle meraviglie balorde: edifici colossali a triangolo, a rombo, tanto per stupire, e ci si chiede perché nell’era moderna migliaia di persone vi si debbano rinchiudere nelle ore di lavoro. Per cominciare Milano è questa, una città  come le altre città  moderne dove fra le case e chi ci abita e lavora non c’è più un rapporto logico, naturale, di bisogni e di utilità , ma una pretesa ridicola di apparire creativi, originali, ultramoderni. Insomma il rovesciamento della logica millenaria per cui una casa serviva per abitarci e per lavorarci. Procedendo verso il centro si presenta un’altra domanda senza risposta: perché gli uomini moderni metropolitanidevono stare tutti insaccati in una megalopoli e non nell’ampiezza naturale del territorio, tanto più adesso che con i mezzi di telecomunicazione ognuno potrebbe lavorare a casa sua? Questa è una domanda che un provinciale come me, nato e vissuto fino ai vent’anni in una città  alpina fra due fiumi dove non c’era una giornata di nebbia, dove, lo diceva Dino Buzzati, ogni mattina della mia finestra apparivano le montagne bianche di neve, si pone. Ma perché allora noi milanesi dobbiamo vivere qua, lungo il fetido Lambro e sotto la sua fetida politica? Perché siamo qui per partecipare a un “tavolo”, per fare la trattativa fra le varie corporazioni produttive e burocratiche. Perché è stata creata quest’immagine del tavolo? Cosa è, una metafora? No, in tutte le direzioni aziendali e manifatturiere, amministrative e politiche c’è veramente un tavolo nel salone delle riunioni, tavoli ovali lunghi decine di metri con tutte le sedie attorno. È chiaro che queste riunioni hanno un puro significato simbolico, sono fatte per far credere che la scelta era corale, democratica, mentre tutti sanno che a decidere sono solo i pochi che contano veramente. Il culto del tavolo di cui si parla di continuo significa che la Milano di oggi è soprattutto unasocietà  urbana condiscendente e concorde. La dirigono, come in un’aristocrazia, le famiglie ricche, i gruppi finanziari potenti non sono legati solo da parentele e da interessi economici, ma anche da legami sportivi, i Moratti dall’Inter e i Berlusconi dal Milan, legami che non sono soltanto affettivi ma anche politici. I “danè” nella Milano di oggi contano come in quella di ieri, di sempre, la Moratti sindaco spende per la campagna elettorale quanto tutti gli altri candidati messi insieme, e il Moratti presidente dell’Inter ha speso in questi anni per la squadra milioni di euro, che ai gonzi sembrano spese folli da ricco ambizioso in cerca di popolarità , e invece sono strumenti di consenso politico più convenienti di qualsiasi campagna pubblicitaria. Ma che cos’è in questa vigilia elettorale questa Milano? Una metropoli feroce del capitalismo avanzato in cui sotto varie formecomandano i ricchi che hanno il favore e la fedeltà  della maggioranza benestante o soddisfatta del suo stato, diciamo il sessanta percento degli abitanti. Gli altri quaranta, che in teoria dovrebbero stare all’opposizione, sono rassegnati a essere cittadini di serie B, per non parlare dei poveri che sono come la pula del grano che vola a ogni soffio di vento; un po’ ridicolo che questa società  autoritaria dei pochi ricchi e potenti abbia la fedeltà  sicura dei benestanti e dei comunque soddisfatti. Ma così è e i signori di Milano non hanno il carisma dei principi e dei sovrani ma sono sopra ogni critica, possono governare la città  senza essere criticati da un elettorato che rappresenta la nuova classe unica della borghesia allargata che bada ai suoi interessi, provvede alle opere indispensabili. E che i poveracci vadano a togliere il disturbo dove vogliono, possibilmente isolati. Milano è l’immagine perfetta di una società  che si crede democratica perché rispettosa di alcuni principi, sia chiaro importantissimi, ma non al punto di poter condizionare o sostituire il potere deldenaro. Il governo dei ricchi e dei potenti nella società  democratica occidentale è, sia ben chiaro, una conquista. Ma il decadimento civile del paese, a cominciare da quello della lingua ridotta a una serie di luoghi comuni, di etichette mandate a memoria, questo è un prezzo durissimo che stiamo pagando alla generale mancanza di indignazione, di protesta a ogniviolazione pretesa dal dominio economico e pubblicitario. Salvo poche eccezioni non c’è più un politico, un amministratore pubblico, un operatore economico che sappia parlare una lingua, non diciamo corretta, ma decente. Si preferiscono sfilze di luoghi comuni appiccicati alla memoria. Nei livelli inferiori della cronaca e in una gran parte delle cronache sportive si parla come selvaggi da poco arrivati al mondo civile, immagini stereotipe, aggettivi esagerati, congiuntivi omessi. Siamo arrivati al rimpianto dei dialetti come unica fonte di lingua creativa, del loro vigore e chiarezza descrittiva, si preferisce l’obbedienza alle pressioni e ai controlli degli interessi economici. Sarà  effetto della vecchiaia, della memoria lunga, ma mi sorprendo spesso a pensare e a parlare in piemontese, a chiamare le cose con un nome, con il loro nome nativo.

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