La resistenza quotidiana dei giornalai

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CERVIA (RA) – Di noi conoscono tutto o quasi. Sanno che squadra tifiamo, se ci piace la vela, il gossip, l’arredamento o la tecnologia. Spesso sanno anche se in parlamento stiamo a destra o a sinistra. Sono tra noi da sempre, in ogni piazza d’Italia. Nelle grandi metropoli e nei borghi abbarbicati tra i monti. Eppure il loro lavoro è quasi un mistero. 
Non si tratta della Cia ma dei 33mila edicolanti italiani, il punto finale della lunga filiera dell’informazione. Di questo piccolo esercito di rivenditori i giornali non parlano quasi mai.
E invece inondata da migliaia di copertine patinate, c’è una piccola impresa autonoma che come tutta l’industria delle news ha da tempo problemi molto seri. Nel paese del tycoon Berlusconi si legge sempre meno. Dal 2006 al 2010 le copie medie giornaliere sono passate da 5,5 milioni a 4,6 milioni, meno 900mila in quattro anni (dati Fieg 2010). Per capire quanto siamo messi male basti sapere che Germania e Inghilterra veleggiano sopra i 15 milioni di copie di quotidiani al giorno.
Inevitabile il crollo del fatturato delle rivendite: meno 35% negli ultimi tre anni, con picchi del 40% in Campania e del 50% in Sicilia. Su ogni euro venduto, l’edicola guadagna poco meno di 19 centesimi (il 18,77% del prezzo di copertina), il 10-15% va ai distributori e il resto arriva all’editore che ci paga tutti i costi. Il risultato è che le edicole spariscono. Nel 2001 le rivendite in tutta Italia erano 42mila, adesso sono circa 33mila. Nella capitale dell’editoria, Milano, ne sono rimaste solo 600 e nell’ultimo anno 30 rivenditori hanno chiesto di sospendere la licenza, l’anticamera della chiusura. 
La razionalizzazione è spietata e si ripercuote anche a monte della filiera. Dieci anni fa i distributori locali, quelli che ogni giorno portano giornali e riviste in edicola, erano ben 400. Oggi sono meno di 130. A Roma città , mercato enorme, ce ne stanno solo due. Tra questi, il principale è di Mondadori e distribuisce l’80% dei prodotti compresi tutti quelli più appetibili. A livello nazionale va ancora peggio: i distributori sono solo 6 ma di fatto i primi due sono di diretta emanazione di Mondadori e Rizzoli-De Agostini (da soli coprono il 58% del mercato italiano). 
Da fuori si potrebbe pensare all’edicola come a un negozio qualsiasi. Ma l’informazione è un valore costituzionalmente rilevante. E dunque anche se inquadrati nel settore del commercio i giornalai sono negozianti molto particolari, con una gestione unica nel suo genere a cominciare da orari lunghissimi. Il giornalaio non può fissare i prezzi dei prodotti (compito esclusivo degli editori) né decidere davvero quantità  e qualità  della merce che deve vendere (è fissata dal piano vendita e da trattative perfino personali con i distributori che quasi sempre sono gli unici sul suo territorio). In cambio di queste condizioni «fisse» dovute alla neutralità  politica ed editoriale del punto vendita secondo il principio della «parità  di trattamento», il giornalaio ha il diritto di restituire quello che non vende (la resa). Ma le pubblicazioni in Italia sono tante, troppe – le stime oscillano tra 6mila e 9mila testate iscritte al tribunale o al Roc – e domanda e offerta non si incontrano mai. Il risultato è che le rese sono enormi per tutti, ben superiori al 45% del distribuito. L’edicola insomma è come un supermercato iperfornito che ogni giorno butta via metà  della merce. 
E’ un sistema completamente inefficiente, in cui le edicole subiscono le politiche di marketing degli editori e le logiche economiche dei distributori. Gli editori, per esempio, possono vendere riviste a pochi centesimi o addirittura già  uscite (per esempio di viaggi o di cucina) confidando comunque sulla pubblicità . L’aggio dei rivenditori però è minimo. E per legge non possono rifiutare nulla.
In più, questo mercato strategico per una democrazia è così concentrato e opaco che ognuno tira la coperta dalla sua parte senza concordare con nessuno i vari passaggi. Qui l’informatica è ancora un miraggio, quasi tutti fanno i calcoli ancora a mano, con ritardi e zone d’ombra che aggravano l’inefficienza e le rendite di posizione. 
Gli scaffali dell’edicola sono un acquario in cui pochi squali si mangiano tutto. I processi di concentrazione e i conflitti di interesse sono ovunque. Mentre i tre grandi editori – Mondadori, Rcs ed Espresso – tagliano giornalisti e redazioni (quindi il prodotto), stanno assorbendo tutte le fasi della produzione: edizione, raccolta pubblicitaria, distribuzione alle edicole e, nelle grandi città , anche la vendita diretta a domicilio e ai semafori. Come dimostrano le vendite, è una logica che produce sprechi, oligopoli e prodotti sempre meno apprezzati dal pubblico.
Nella tavola rotonda che ha aperto il congresso del Sinagi a Cervia (vedi sotto), a Matteo Orfini (responsabile comunicazione del Pd) e Massimo Cestaro (segretario generale Slc Cgil) è toccato il compito di ricordare al governo che la crisi dell’editoria non è solo congiunturale (calo delle vendite e della pubblicità ) ma è soprattutto strutturale. I marchi di fabbrica delle scelte del Pdl sono un conflitto di interessi enorme (solo in Italia le tv assorbono il 56,3% delle risorse pubblicitarie contro il 17% dei quotidiani) e i tagli lineari di Tremonti, che hanno tolto a tutti e dunque allungato le distanze tra soggetti sempre più disuguali.


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