L’eterna lotta tra sano e buono

by Editore | 15 Maggio 2011 6:43

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Siamo fritti! disse l’alice al calamaro. Difficile pensarli diversamente. Certo, l’una e l’altro possono soggiacere a cotture diverse: alla griglia, col pomodoro, in tortiera. Perfino offrirsi nudi e crudi, specie se di piccole dimensioni. Ma nessun’altra modalità  suscita la stessa salivazione immediata, il richiamo del mare e quello della cucina vacanziera ritrovata nel giro di pochi bocconi, da gustare con avidità  mal trattenuta. Il fritto è – come si dice – la morte loro. 
Nulla rappresenta meglio del fritto di mare l’eterna lotta gastronomica tra il bene e il male. L’ingrediente-elisir – meno carne e più pesce!, predicano i nutrizionisti – prigioniero della preparazione trasgressiva per antonomasia, la leggerezza della materia prima contaminata dalla pesantezza del grasso cotto, il cibo che abbatte il colesterolo cheek-to-cheek con chi il colesterolo – quello cattivo, per giunta – lo costruisce, molecola su molecola.
Dovremmo starne alla larga, ne siamo irresistibilmente attratti, per quella summa di dettagli che costruiscono un mito gastronomico, addirittura a prescindere dalla qualità  finale di quello che mangiamo. Non si spiegherebbe altrimenti la fama mondiale di fish&chips, merluzzo e patatine in cartoccio senza riguardo per la qualità  delle materie prime, cotto in grassi pessimi: mangiarlo è un godimento che ci riporta indietro negli anni, cucina d’infanzia e attualissimo peccato di gola. Le antinomie, per fortuna, sono anche altre, dal contrasto morbido-croccante di polpa e impanatura alla miscellanea che apparenta pesci poverissimi e super crostacei, uniti nel sacro nome della paranza, madre di tutte le fritture di mare, perché tutto accoglie nel padellone di ferrifero annerito.
Ce ne siamo dimenticati, ma il fritto di pesce nasce proprio lì, in riva al mare, ovunque arrivasse un gozzo con il suo carico più o meno generoso. Sfoltito il pescato delle varietà  più pregiate, destinate al mercato, si friggeva quanto restava, senza troppo curarsi delle proporzioni tra uno e l’altro elemento di questa sorta di misticanza marina. Abbiamo guadagnato in tecnica – niente oli di bassa qualità , grassi che fumano, limone che ammolla la pastella – ma perso in varietà , votati come siamo ai comandamenti della pigrizia ittica: gamberi e moscardini, cozze e sogliole. Poco importa che siano quasi tutti di allevamento, oppure surgelati.
Se volete sapere che cos’è il fritto verace, che riempie le narici e scrocchia sotto i denti, programmate una gita a Genova dove a fine mese si svolge la quinta edizione di Slow Fish, manifestazione di Slow Food dedicata alla cultura dell’acqua, ai suoi prodotti e alla sua gente. Che si traduce in dibattiti sulla pesca sostenibile e laboratori del gusto, cene didattiche e aste mattutine. Altro appuntamento prezioso quello con Biolfish – Monopoli, Bari, 1-5 giugno – incentrato su acquacoltura biologica e pesca sostenibile, con menù tematici dove il fritto di mare sarà  re indiscusso. In caso di dubbi, sfogliate Il mare in cucina, manuale storico-sociologico di gastronomia ittica di Enrico Gurioli e Alessandro Molinari Pradelli, pubblicato da Gribaudo. Scoprirete la poesia delle sarde in saor, rigorosamente fritte prima di essere battezzate con aceto e cipolle. Un bicchiere fresco di pigato o di falanghina annegherà  i sensi di colpa.

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