L’Europa rinasce in nord Africa

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Secondo Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato, nelle prime due settimane di flusso di richiedenti asilo partiti per mare dalla Libia mancano all’appello almeno 800 persone, di cui si sono completamente perse le tracce: “Una persona su cinque – scrive Laura Boldrini – non ce l’ha fatta, una vera roulette russagiocata dai trafficanti sulla pelle di chi fugge dalla violenza e dalla guerra. Inoltre decine di corpi sono stati ritrovati sulle spiagge di Tripoli, restituiti dalle correnti, ed è difficile stabilire se questi morti vadano ad aggiungersi o debbano essere sottratti ai numeri sopra menzionati”.

Si tratta di una delle più gravi tragedie del Mediterraneo degli ultimi anni, ma ciò che colpisce è il fatto che se un numero di vittime di queste dimensioni fosse stato causato da una qualsiasi altra sciagura e avesse coinvolto cittadini occidentali avremmo assistito a una grande mobilitazione dell’opinione pubblica. E probabilmente anche a una gara di solidarietà . Al contrario, la morte di questi disperati ha ingenerato reazioni complessivamente tiepide, e, soprattutto, non ha creato quella coralità  di giudizio e quella convergenza di azioni che avrebbe dovuto causare. Evidentemente, per quanto questo possa sembrare triste, viviamo in un’epoca nella quale non abbiamo ancora interiorizzato il fatto che la dignità  umana appartiene a tutti allo stesso modo e che non ci sono vite che hanno meno valore di altre solo perché hanno visto la luce in un altro fazzoletto di terra. Ma questa cattiva abitudine di gerarchizzare il valore della vita è molto difficile sradicare, e c’è sempre chi non perde l’occasione per far bella mostra tutto il proprio cinismo di fronte a sciagure che chiederebbero, se non la partecipazione, almeno un po’ di pudore.

All’indomani della tragedia, in un documento dell’8 aprile destinato all’Unione Europea (Appello per la difesa dei principi del soccorso in mare e della condivisione degli oneri), l’UNHCR ha espresso un giudizio molto duro sull’accaduto, richiamando alla necessità  di non perdere di vista il fatto che in mare esistono principi e pratiche di soccorso che prescindono dalle opzioni politiche e che obbligano all’intervento le imbarcazioni che possono operare per salvare chiunque si trovi in pericolo. A tale obbligo, sancito dallaConvenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 e dalla Convenzione sulla ricerca ed il soccorso in mare del 1979, con gli emendamenti entrati in vigore nel luglio 2006, corrisponde un obbligo degli Stati a cooperare nelle operazioni di soccorso. Il recente documento sul Soccorso in mare, stilato da UNHCR e Organizzazione marittima internazionale, richiama con chiarezza tale principio: “Anche quando l’operazione di soccorso è stata portata a compimento, possono insorgere problemi per ottenere il consenso di uno Stato allo sbarco dei migranti e dei rifugiati, in particolare quando questi non dispongono di un’adeguata documentazione. Nel riconoscere questo problema, gli Stati membri dell’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) hanno adottato emendamenti a due importanti convenzioni marittime internazionali che trattano l’argomento . Tali modifiche hanno lo scopo di assicurare che all’obbligo del comandante della nave di prestare assistenza faccia da complemento un corrispondente obbligo degli Stati di cooperare nelle situazioni di soccorso, sollevando in tal modo il comandante dalla responsabilità  di prendersi cura dei sopravvissuti e di consentire agli individui che vengono soccorsi in mare in simili circostanze di essere prontamente trasferiti in un luogo sicuro”.

Tale obbligo di soccorso investe quindi direttamente tutti i soggetti istituzionali e tutti i Paesi interessati fenomeni migratori e impone la ricerca di accordi e soluzioni che siano chiari, stabili e, soprattutto, rispettosi della dignità  e dei diritti di ogni persona umana.

Il problema è tanto più serio se si tiene conto che, in linea generale, la fuga via mare interessa solo una piccola parte delle persone che lasciano i Paesi d’origine e che quindi all’aumento di persone che attraversano il Mediterraneo sui barconi corrisponde un aumento ben più consistente di persone in fuga via terra. In proposito Erika Feller, Assistant High Commissioner for Protection, afferma nell’Appello dell’UNHCR all’UE: “È difficile comprendere come, in un momento in cui decine di migliaia di persone fuggono dal conflitto in Libia attraversando le frontiere terrestri con Tunisia ed Egitto – dove trovano sicurezza e ricevono accoglienza e aiuti –, la protezione di chi fugge dalla Libia via mare non sembri avere la stessa priorità . Oltre 450.000 persone sono già  fuggite dalla Libia per riversarsi nei paesi vicini, in Tunisia, Egitto, Niger, Algeria, Ciad, Sudan, Italia e Malta. Ma molti si trovano ancora bloccati in Libia a causa del conflitto in corso. L’UNHCR è particolarmente preoccupato per i rifugiati e richiedenti asilo a Misurata e nelle altre città  libiche. Con il deteriorarsi della situazione in Libia, per molte persone la fuga via mare potrebbe rimanere l’unica soluzione”.

La precisazione della Feller è molto importante per il dibattito politico attuale. I 450.000 libici che l’UNHCR afferma aver già  oltrepassato i confini dei paesi limitrofi danno le dimensioni di una tragedia che non si risolve senza un piano di intervento complessivo che coinvolga almeno UE e Unione Africana. Gli accordi bilaterali sono necessari, ma qui occorre creare un tavolo allargato, tenendo presente che non si fermano gli sbarchi sulle coste dell’Europa e non si frenano le fughe via terra se non si mette mano alla globalità  della crisi nordafricana, nella quale troviamo contrapposte straordinarie spinte democratiche e forti tentazioni autoritarie. In gioco non c’è solo il futuro del Magreb, ma la stabilità  geopolitica del Mediterraneo, che non è ovviamente un affare italiano, maltese, greco o spagnolo, ma un problema di tutti.

Tutto questo è ancora più urgente se si tiene conto del fatto che questi esodi veloci e difficilmente controllabili non sono un’eccezione, ma rappresentano il corollario di molti dei conflitti degli ultimi vent’anni. È accaduto con le centinaia di migliaia di bosniaci che si sono riversati in Germania durante il conflitto jugoslavo, con i due milioni di persone in fuga dal Rwanda nel 1994, con il milione di kosovari che hanno oltrepassato il confine albanese nel 1999, solo per ricordarne alcuni…

Osservare unicamente i barconi che arrivano sulle nostre coste illudendoci che basterebbe ricacciarli indietro per risolvere il problema è dunque inaccettabile e fuorviante. Inaccettabile perché le convenzioni internazionali impongono il salvataggio di chiunque sia in pericolo: “Chiediamo ai capitani delle navi di continuare a fornire assistenza a chi si trova in pericolo in mare. Qualunque imbarcazione sovraffollata partita dalla Libia dovrebbe essere considerata in pericolo”, si legge nell’Appello dell’UNHCR all’UE. E fuorviante, perché concentra lo sguardo su un aspetto trascurando la globalità  della crisi.

Per l’Europa questa è una nuova sfida dalla quale non si esce se non assieme, mettendo un freno alle spinte disgregatrici e sostenendo nel nord Africa i processi di democratizzazione. Diversamente abbiamo davanti uno scenario nel quale si radicalizzano le contrapposizioni fra i paesi del Magreb e l’Europa: uno scenario che non farebbe bene a nessuno, nemmeno a chi, oggi, si illude che bastino cordoni sanitari per tenere l’Africa fuori dalla porta.



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