L’Europa smarrita e l’immigrazione

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Ma messo alla prova del flusso di migranti, il mito europeo si appanna. Gli Stati nazionali tornano protagonisti, le diplomazie bilaterali prendono il sopravvento, le frontiere tornano a chiudersi, le scaramucce di certificati e rimpatri si susseguono. Di fronte agli sbarchi dei profughi del mondo, l’Europa non sembra più certa di voler essere il laboratorio di una nuova cittadinanza. E forse, la recentissima decisione della Corte di Giustizia della Ue di bocciare la norma italiana che prevede il reato di clandestinità  va letta come un invito dell’Europa dei diritti all’Europa della politica di rivedere la sua strategia sull’immigrazione. Ma a dispetto di ciò che l’Europa vuole o non vuole, in un modo o nell’altro i migranti sono ormai parte della sua identità , di quello che è e sarà . Sono il banco di prova del mito europeo e della civiltà  democratica. Soprattutto i migranti senza-Stato (stateless), un fenomeno globale relativo a persone senza una nazionalità  comprovata. Per ragioni diverse: o perché lo Stato dal quale provengono ha cessato di esistere a causa di guerre civili, o perché chi scappa ha dovuto tenere segreta l’identità  per non subire repressione a causa della propria fede religiosa. Nel ventesimo secolo, la pulizia etnica venne realizzata riducendo ebrei e membri di alcune minoranze nazionali europee allo stato di non-cittadini nei paesi dove erano nati, con l’esito ben noto di poterli così deportare ed eliminare in massa. Senza Stato ovvero alla mercé del potente di turno. Nel 1954 le Nazioni Unite hanno adottato la Convenzione sugli stateless tesa a prevenire che persone fossero o restasse senza uno Stato. Nel 1961 molti paesi, tra i quali il nostro, hanno sottoscritto la convenzione impegnandosi a garantire la nazionalità  a persone apolidi nate nel loro territorio. La guerra in Iraq e in Afghanistan, le guerre civili nell’Africa sub-sahariana, le rivoluzioni anti-autoritarie nei paesi arabi hanno comportato un aumento prevedibile dei migranti, rifugiati che scappano la fame e la violenza, che chiedono asilo. Migliaia di uomini, donne e bambini, per piccoli scaglioni o uno ad uno, a piedi o con mezzi di fortuna pagati a prezzi di strozzinaggio, sono da anni in movimento, scappando spesso dalle guerre che i paesi verso i quali vanno sono impegnati a combattere. Un fatto di grande interesse è che tra questa umanità¡ di senza-Stato sembra configurarsi una nuova identità  politica, nata negli interstizi della legge: di quella oppressiva degli stati di provenienza e di quella che incontrano negli stati d’approdo, dove sono dichiarati subito illegali. Senza-Stato e senza legge: è in questa identità  paranomica che sta prendendo forma una nuova espressione di identità  politica, di cittadinanza senza-Stato, ovvero non come appartenenza istituzionalizzata ma come azione di auto-determinazione alla libertà ; cittadinanza come forma di democrazia nascente in quanto denuncia radicale di una condizione di assoluto assoggettamento, di rivendicazione non di diritti umani semplicemente, ma di diritti civili e politici. I migranti hanno per convenzioni internazionali i diritti umani fondamentali: diritto al soccorso umanitario e medico. Vita minima: questo significa avere diritti umani. Come ha scritto Hannah Arendt in pagine esemplari, ai migranti non è riconosciuto uno spazio legale-politico, ma solo uno spazio naturale; non è riconosciuto il diritto di organizzarsi ma solo di sopravvivere. Chi fa parte della categoria umana semplicemente è caduto nella natura, se così si può dire, fuori della famiglia delle nazioni e dello stato. Persone senza protezione da parte di un governo, nate nella «razza sbagliata», perseguitate non perché hanno fatto qualcosa ma perché sono ciò che sono. La non esistenza legale –poiché senza documenti – costringe i migranti a farsi politicamente attivi fuori della legge. Ancora da Arendt: il paradosso per gli umani protetti dai diritti umani è che per essere rispettati nei diritti devono diventare oggetto di repressione. Violando le leggi si guadagnano l’ingresso nel sistema della legge e acquistano diritti civili – quello alla difesa nei processi o a un trattamento che esclude violenza e tortura – che da ‘liberi’ non avrebbero, perché non-cittadini. La novità  di questi ultimi anni, a partire dalla rivolta in Grecia nel dicembre 2008, è che i migranti hanno mostrato di voler usare anche una lingua politica, di volere esercitare una qualche forma di cittadinanza, mettendo in pratica quello che il mito europeo ha predicato soltanto. È successo a Rosarno all’inizio del 2010, quando i lavoratori africani stagionali si sono organizzati per reagire alla loro semi-schiavitù. è successo recentemente in Australia, dove in un campo di detenzione più di trecento migranti hanno deciso di fare lo sciopero della fame per parlare con persone autorizzate del governo Australiano e ottenere di non essere rimpatriati in Afghanistan, da dove erano scappati; hanno chiesto interlocutori con autorità  di trattativa, proprio come facciamo noi cittadini quando vogliamo fare sentire la nostra voce. Ma a noi quella voce è concessa dalla costituzione. A loro è negata, nonostante i diritti umani. In questi casi recenti, pur nella differenza delle circostanze, i migranti hanno manifestato una chiara auto-proclamazione di soggettività  politica, un passo importante perché un’ammissione esplicita che i diritti umani non danno il potere di contrastare ciò che dallo stato di rifugiati è lecito aspettarsi, ovvero il rimpatrio. Non essere rimpatriati è una richiesta che proviene dall’avere non i diritti umani semplicemente, ma una voce politica. Ma quale cittadinanza è possibile fuori dallo spazio statale? L’ordine giuridico, anche quello europeo che pure ha l’ambizione di essere sovranazionale, non contempla un’identità  politica al di fuori dello Stato. Eppure questi migranti agiscono come se fossero cittadini, e così facendo avanzano una richiesta di diritto politico come esseri umani (reclamano una cittadinanza cosmopolita). È questa l’importante novità  che sta emergendo dai recenti movimenti di migranti senza-Stato. La loro è una sfida importante alle forze progressiste e democratiche dell’Europa poiché indubbiamente le esigenze ragionevoli di regolare i flussi migratori devono potersi combinare a un progetto che riconosca una dignità  di cittadinanza ai migranti, come capacità  riconsciuta di proporre e contestare, di trattare e avere una rappresentanza, al di là  e indipendentemente dall’appartenenza ad un corpo politico. Partire da una lettura non pregiudiziale di queste esperienze è la condizione minima per cercare di trovare soluzioni giuridiche e politiche che diano dignità  ai migranti e nello stesso tempo facciano avanzare l’idea di una comunità  politica europea che non sia solo un mito.


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