Londra, Obama a Westminster “L’Occidente leader dei valori”

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LONDRA – «Mai prima di lei nella storia un presidente americano aveva parlato qui a Westminster davanti alle Camere riunite», lo introduce il Lord Chancellor. E Barack Obama rende omaggio alla «madre di tutti i Parlamenti», lui «il nipote di un keniano che lavorò come cuoco per l’esercito britannico». Ma è verso il futuro che il presidente degli Stati Uniti proietta il ruolo della «relazione speciale» con la Gran Bretagna. E’ vero che l’Occidente non domina più il mondo, il XXI secolo è segnato dall’avvento di altre grandi potenze, «ma a noi resta la leadership dei valori, e il momento di esercitare questa leadership è ora». Quando interi popoli si sollevano per chiedere diritti e libertà , «è verso di noi che guardano». Quando grandi nazioni come Cina India e Brasile vincono la sfida dello sviluppo, «è cogliendo le opportunità  di un’economia di mercato che abbiamo creato noi per primi».

Ci sono divergenze tra Washington e Londra, la conferenza stampa congiunta con David Cameron non le ha dissimulate. Il premier inglese non ottiene il rafforzamento del ruolo militare in Libia da parte degli Usa, contenti di delegare ad altre nazioni Nato le operazioni più offensive. Obama non incassa la promessa di un veto inglese che si aggiunga a quello americano, quando l’Onu voterà  sul riconoscimento dello Stato palestinese: «Mi consulterò con i partner europei», gli risponde Cameron pur approvando la proposta di Obama di una pace israelo-palestinese che parta dai confini del 1967. I due concordano invece sul fatto che l’intervento in Libia andrà  avanti «finché sarà  scomparsa ogni minaccia della tirannide contro la popolazione», quindi di fatto fino alla partenza di Gheddafi. C’è intesa anche sull’Afghanistan, dove il ritiro delle truppe a partire da luglio dovrà  procedere «con una soluzione politica: negoziato tra il governo Karzai e i talebani purché rompano con Al Qaeda e diano garanzie di rispetto dei diritti umani».
Ma è il discorso di Westminster il perno dell’ultima giornata di Obama a Londra prima del G8, con la visione che il leader americano offre a tutto l’Occidente: un nuovo ruolo leader per le liberaldemocrazie fondato «non sulla forza dell’economia o delle armi, ma sui nostri ideali, sullo Stato di diritto». Tra le grandi sfide che l’Occidente deve affrontare, la più immediata è «la rivoluzione che corre attraverso le strade del Medio Oriente e del Nordafrica, dove il mondo intero ha interesse a veder realizzate le aspirazioni di una nuova generazione che vuole determinare il proprio destino». Questa sfida coincide con un’era in cui «l’ordine internazionale viene ridefinito da Cina, India e Brasile, che crescono a grandi balzi in avanti». Dobbiamo salutare il loro sviluppo, dice il presidente americano, «perché ha sollevato centinaia di milioni di esseri umani dalla miseria, e perché apre nuovi mercati e nuove opportunità  anche per noi».
Ma Obama prende le distanze da «un’analisi oggi di moda, secondo cui l’ascesa di nuove nazioni comporta il declino dell’influenza americana ed europea». Come se «il futuro appartenesse ad altri, mentre la nostra leadership è un fatto del passato». Se dalle rivoluzioni arabe emerge il desiderio di diritti individuali, «è perché sono gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e gli altri alleati democratici ad aver dato forma a un mondo dove questo è possibile». Siamo noi, ribadisce Obama, «il più grande catalizzatore dell’azione globale, le nazioni più pronte a scendere in campo per difendere la tolleranza e l’autodeterminazione». Questo vale anche per il dinamismo economico: «da Newton a Darwin, da Edison e Einstein fino a Steve Jobs». Il binomio vincente tra innovazione scientifica («abbiamo le migliori università  del mondo») e libertà  di mercato, si snoda lungo una storia che va «dalla rivoluzione industriale di Manchester fino alla Silicon Valley californiana». E’ il modello che ha attecchito in Cina e in India, anche se «i mercati possono fallire, e le lezioni dell’ultima crisi devono spingerci al rigore nelle regole».
Obama ammette che esiste tra i popoli arabi un «sospetto» sulle intenzioni dell’Occidente, legato al nostro passato coloniale e alle più recenti collusioni con tiranni feroci. Riconosce che «ci vorranno anni per vedere l’esito di quelle rivoluzioni, la democrazia non è facile, il populismo può generare pericolosi estremismi». Ma il segno di quel che sta accadendo non può essere frainteso: «Sono gli stessi movimenti che vedemmo nell’Europa dell’Est. A Teheran, a Tunisi e al Cairo vogliono le stesse libertà  che noi diamo per acquisite a casa nostra. Non può esserci dubbio sul fatto che noi stiamo dalla loro parte». Il futuro dei nostri figli e nipoti «sarà  migliore se anche i figli e nipoti degli altri, dai Balcani a Bengasi, saranno più prosperi e più liberi». Il nipote del cuoco keniano che lavorò per la British Army conclude ricordando «una qualità  che rende l’America e il Regno Unito indispensabili in questa fase della storia: a differenza di tanti altri paesi, noi non definiamo la cittadinanza in base alla razza o all’appartenenza di gruppo, essere americano o inglese significa credere in un sistema di ideali, di diritti del cittadino, di regole dello Stato di diritto».

 


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