Nessun futuro oltre le sbarre. I disperati del Cie di Trapani

by Sergio Segio | 11 Maggio 2011 8:32

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Visto da fuori, il centro di identificazione e espulsione di Trapani ha la forma di una mano. Ma non di una sola. Di almeno una decina. Sono le mani dei suoi detenuti, una sessantina di tunisini recentemente sbarcati a Lampedusa e destinati al rimpatrio. Le loro mani spuntano tra i ferri della gabbia sul ballatoio del secondo piano. Alcune si aggrappano alle sbarre. Altre agitano in aria le due dita aperte a v in segno di vittoria. Mentre nel cortile rimbombano le grida della loro ennesima improvvisata protesta. «Libertà ! Libertà !», gridano a pieni polmoni. E il coro di protesta si propaga lungo la strada di fronte che, ironia della sorte, si chiama proprio via Tunisi. Dentro il cortile, i carabinieri lasciano fare. Da dietro la gabbia, strillando, un ragazzo tunisino ci chiede in francese: «Pensavamo di lasciare la dittatura per trovare la democrazia. Ma dov’è la libertà ? È questa la democrazia? D’accordo abbiamo passato la frontiera senza documenti. Ma siamo persone per bene, lavoratori. Perché ci trattano come delinquenti? L’Italia per noi è soltanto un passaggio. Fateci uscire e domani partiamo per la Francia». Le sue sono parole senza volto. Escono dalle grate senza che si riesca a vedere la sua faccia. Nascosta nella penombra dietro la macchia nera dei ferri della gabbia anneriti dal fuoco dell’ ultimo rogo appiccato per protesta la scorsa settimana. È successo la sera del 4 maggio, quando alcuni tunisini reclusi hanno bruciato materassini, coperte e vestiti. L’incendio è stato spento dai vigili del fuoco. Dopodiché hanno fatto ingresso nella sezione polizia, militari e carabinieri. Secondo il racconto di chi ha assistito alla scena, gli agenti avrebbero fatto disporre in fila i detenuti e ne avrebbero manganellati alcuni a scopo dimostrativo, visto che non avevano prove per identificare gli effettivi responsabili dell’incendio. E infatti ad oggi nessuno eÌ€ stato arrestato. In compenso otto ragazzi sono finiti in infermeria per le bastonate ricevute.
Ne accadono spesso di roghi nei Cie. Ma al Vulpitta fa sempre uno strano effetto. Perché riporta la memoria alla notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1999. Anche quella sera un gruppo di ragazzi tunisini appiccarono il fuoco ai materassi nella propria cella. La porta che dava sul ballatoio era chiusa a chiave e prima che intervenissero i soccorsi, il fuoco
divampoÌ€ bruciando vivi tre detenuti. Altri tre morirono nelle settimane successive in ospedale. Sei morti per cui nessuno eÌ€ mai stato ritenuto responsabile, nemmeno l’allora prefetto di Trapani, Leonardo CerenziÌ€a, che venne prima imputato per omissione di atti d’ufficio e concorso in omicidio colposo plurimo e poi assolto con formula piena.
Da allora eÌ€ cambiato poco o niente. Se non che la capienza del Cie eÌ€ stato ridotta da 180 a 57 posti. La struttura peroÌ€ eÌ€ sempre la stessa. Con le celle una a fianco dell’altra,
affacciate in modo così claustrofobico su quell’unico ballatoio ingabbiato. I lucchetti si aprono quattro volte al giorno. Per i pasti, e per l’ora d’aria concessa nel pomeriggio, per giocare nel campetto di calcio nel parcheggio all’ingresso, costantemente sotto la stretta vigilanza degli agenti. V. di tutto questo non ne può più. Lui è dentro da più di quattro mesi. È lui che ci ha telefonato e raccontato della rivolta. Nelle sue parole, il Vulpitta non si chiama più Cie e non si chiama più nemmeno centro di identificazione e espulsione. Si chiama ferro. «Mi alzo e trovo il ferro, esco dalla camera e trovo il ferro, vado alla mensa e trovo il ferro, dormo e trovo il ferro. Tutti i giorni la stessa cosa. Non riesco più a pensare a niente». E l’ora d’aria, i 40 minuti concessi ogni giorno ai detenuti per sgranchirsi le gambe nel cortile della struttura, non servono a granché. «Giochiamo un po’ a pallone, ma sei sempre circondato dai militari e dalla polizia. Anche se vai in infermeria, sempre accompagnato dai militari e dalla polizia. Non siamo delinquenti, non siamo mafiosi, cosa abbiamo sbagliato?».
Lui l’Italia se l’immaginava diversa, migliore. à‰ partito dalla Tunisia due anni e otto mesi fa. All’epoca c’era ancora la dittatura di Ben Ali. «Non sono partito per i soldi, ma per la libertà . Avevo un lavoro, ma nella vita la libertà  è più cara di tutto, è più cara anche dei soldi. E in Tunisia non eri libero di gridare quello che pensavi. Ho attraversato il mare, pensavo di trovare la democrazia in Italia e invece è peggio che da noi». Presto V. sarà  finalmente di nuovo un uomo libero. Anche se a dire il vero fino a adesso non ha la più pallida idea di cosa farà . «Non riesco più a pensare. Sei mesi rinchiuso qua dentro, ti rendi conto? Sei mesi buttati via della mia vita… Il mio cervello si è spento. Ho degli amici, li chiamerò, magari per farmi ospitare i primi giorni, poi cerco un lavoretto. Dipende tutto dalla fortuna». E dalla fortuna dipenderà  anche non farsi riacciuffare dalla polizia. Esci dal Cie, non sai dove andare, ti trovi in mezzo a una strada, e magari una settimana dopo ti ferma di nuovo la polizia e ti chiede di nuovo i documenti. E tutto comincia da capo. Di nuovo il Cie, di nuovo sei mesi buttati via. E una fabbrica che oltre alla clandestinità  e al consenso elettorale, genera sofferenza e emarginazione.

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