Obama: “Due Stati per Israele e palestinesi”
NEW YORK – «E’ più essenziale che mai che israeliani e palestinesi tornino al tavolo dei negoziati, per creare due Stati che convivano nella pace e nella sicurezza». E’ uno dei passaggi cruciali del discorso che terrà oggi Barack Obama: due anni dopo il celebre appello lanciato al Cairo per una “nuova èra” nei rapporti tra l’America e il mondo islamico. Obama ci riprova, aggiorna la sua “dottrina” alla luce degli sconvolgimenti accaduti dall’inizio dell’anno in Tunisia, Egitto, Libia, Siria, ci aggiunge una sorta di Piano Marshall con la promessa di consistenti aiuti economici a chi fa le riforme. Lo fa subito dopo aver varato sanzioni contro il dittatore siriano Assad: ieri un ordine esecutivo del presidente ha “congelato tutti i beni di Assad” e dei sette principali esponenti del regime presso le banche americane. E’ un passo verso l’isolamento, che ricorda le prime tappe nell’escalation di toni contro Gheddafi. Una svolta, visto che finora Washington aveva usato più cautela verso la Siria, sperando di staccarla dall’Iran. Ma le continue repressioni sanguinose contro le proteste della popolazione siriana hanno convinto Obama: “Assad guidi la transizione, o lasci il potere”. Il vero test del discorso di oggi però è un altro, come per tutta la politica americana verso il Medio Oriente: lo stallo nel dialogo di pace tra Israele e i palestinesi, i segnali recenti di nuove tensioni, rischiano di vanificare tutto quello che è accaduto di positivo sugli altri fronti. Dalla pacifica uscita di Mubarak, fino all’uccisione di Osama Bin Laden, l’America sembrava aver segnato parecchi punti. Oggi Obama metterà l’accento sugli aspetti positivi, “il dischiudersi di una nuova èra di battaglie per i diritti umani e le libertà “, così come “l’assenza di ostilità verso l’America, verso l’Occidente, la presa di distanza dai fondamentalismi religiosi” che contraddistingue quei movimenti. Darà un forte incoraggiamento alle riforme democratiche in tutta l’area. Spiegherà a quali condizioni i paesi arabi possono aspettarsi sostegno e generosi aiuti economici dall’Occidente, compresa la cancellazione del debito estero e un piano di ricostruzione finanziato con strumenti simili alla Berd, la banca europea per i paesi dell’Est: “Elezioni libere, rispetto delle minoranze, diritti delle donne, e relazioni pacifiche con tutti i vicini incluso Israele”. E’ su quest’ultimo punto che tutti lo aspettano al varco. Un editoriale del New York Times dà un giudizio severo della politica di Obama sul dossier israelo-palestinese: “Da quando lui è alla Casa Bianca, i leader israeliani e palestinesi hanno avuto solo tre settimane di dialogo diretto. E l’inviato speciale di Obama in Medio Oriente, George Mitchell, si è dimesso. Obama ha fatto poco per uscire dallo stallo. Non si vede come possa parlare in modo convincente dei cambiamenti nel mondo arabo senza mostrare ai palestinesi uno sbocco pacifico e positivo. E’ ora che Obama metta un suo piano e una mappa sul tavolo”. Ma fino all’ultimo Obama è stato titubante, sul fatto di richiedere formalmente che Israele torni ai confini pre-1967, come condizione per il rilancio dei negoziati sullo Stato palestinese. La sua perplessità è dettata anche da considerazioni di politica interna: per avere delle chances come mediatore fra isareliani e palestinesi il presidente americano dovrebbe impegnarsi molto, in prima persona. Siamo a meno di 18 mesi dalle prossime elezioni per la Casa Bianca, un periodo in cui Obama deve concentrarsi prevalentemente sui problemi domestici. Nel frattempo però la situazione in Medio Oriente peggiora a vista d’occhio. I militari israeliani domenica hanno sparato sui palestinesi che cercavano di varcare le frontiere, facendo oltre una dozzina di morti. Il Fatah, il partito dell’autorità palestinese guidato da Mahmoud Abbas, ha stretto un accordo con la forza islamica di Hamas. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che arriva domani a Washington ha detto che “non è un partner per il dialogo di pace un governo dove la metà dei membri dichiarano la loro volontà di distruggere lo Stato d’Israele”. I palestinesi da parte loro puntano a un voto dell’Onu a settembre per il riconoscimento della Palestina entro i confini pre-1967. Gli Stati Uniti, votando contro per non isolare Israele, si troverebbero di nuovo contro l’intero mondo arabo. Il columnist Thomas Friedman del New York Times è convinto che Obama non ha l’opzione di aspettare: “Deve sfoggiare la stessa determinazione che ha dimostrato nella caccia a Bin Laden”.
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