Pisapia e il principio di realtà
Molti intellettuali italiani, pur di grande cultura, hanno difficoltà a confrontarsi con il principio di realtà . C’è il famoso studioso della Grecia (antica) che si rifiuta di andare in Grecia oggi per non disturbare la sua visione libresca; l’umanista di vaglia a lungo stalinista che loda le biblioteche pubbliche sovietiche – dove c’erano settori riservati solo ai membri del partito – e non sa che le migliori biblioteche pubbliche del mondo sono state fatte dai Robber Barons in California: sono ancora lì. C’è il grande letterato che si lamenta del silenzio degli intellettuali senza rendersi conto che sta ascoltando nella stanza sbagliata, e via dicendo.
C’è il filosofo Cacciari che, anche dopo la strepitosa vittoria di Pisapia al primo turno, continua, perso dietro il suo sogno centrista, a sostenere che se avessimo scelto Albertini avremmo vinto subito. Ma li guarda qualche volta i dati, Massimo Cacciari? Si ricorda chi era Albertini? (dico politicamente, perché con lui ho sempre avuto buoni rapporti personali, nel più assoluto dissenso politico). Ha notato Cacciari che Pisapia ha preso tutti e 9 i consigli circoscrizionali? Ha una idea Cacciari di quanti quartieri avrebbe convinto Albertini? Questi von Clausewitz della Grande Politica continuano a pensare che il compito del Centro Sinistra sia quello di portare un elettorato di sinistra (giovani, persone istruite e bene informate, classi lavoratrici e sfruttati) a votare un personaggio di destra. È una coazione a ripetere anche se quella destra lì sta scomparendo. L’operazione inversa, che è quella riuscita, alla grande, a Pisapia, di portare un elettorato moderato «decente» su posizioni progressiste, non è neppure presa in considerazione.
Non è in discussione la qualità dello studioso, ma il suo ruolo sociale che nell’organizzazione precedente era inserita in una struttura piramidale di accademie, giornali, riviste, all’occorrenza strutture di partito che fornivano un moltiplicatore eccezionale al maà®tre à penser. Oggi, come dice Friedman, the world is flat, alla piramide si è sostituita una pancake, come sostengono i teorici della società della conoscenza: vero o non vero quella struttura piramidale non c’è più.
Giuliano Ferrara ha subito trovato la quadra: Pisapia è prigioniero degli estremisti, e questa è diventata immediatamente la parola d’ordine dei terzini – si fa per dire, vedi l’esilarante Ostellino sul Corriere del 20 maggio sulle dichiarazioni di Bossi. Ferrara chiama Radio Londra la sua trasmissione immaginandosi di avere l’aplomb del carismatico Colonnello Stevens, senza accorgersi di essere piuttosto uno sbraitante Mario Appelius (Dio stramaledica gli inglesi).
È interessante studiare da vicino il giudizio di Giulio Sapelli «Se un candidato debole come Pisapia prende una quantità di voti simile significa che non sono stati commessi soltanto errori di comunicazione». A parte l’uso dell’impersonale che farebbe quasi credere che si immedesimi con l’area morattiana, Sapelli non si chiede come mai un candidato che lui ritiene debole abbia preso tanti voti, premiando l’intuizione del gruppo che l’ha lanciato un anno fa e delle migliaia che l’hanno votato alle primarie e che quindi lo ritenevano un candidato forte. Cioè non si chiede come mai il giudizio di «debolezza» dato sul candidato da lui (ma non da altri, occorre insistere) sia stato smentito dai fatti. No, si chiede come mai ci siano state persone che hanno votato un candidato che, essendo stato giudicato debole da Sapelli, doveva essere ontologicamente debole.
Più in generale lo schema teorico che ha imprigionato l’azione, o meglio l’inazione, della sinistra in questi anni, è la visione meccanicistica e statica dell’elettorato, come una torta i cui spicchi sono definiti una volta per tutti e il gioco consiste solo nell’elaborare uno schema capace di inglobare la porzione più grande possibile del centro immobile. Non è così, la torta non è una torta ma un bolo di mercurio su un foglio di carta e vince quello che è più bravo a raccoglierne la maggior parte senza disperdere il resto in frammenti impazziti, ci vuole mano leggera e una azione chimica più che meccanica.
Anche Luca Ricolfi, che i dati li conosce bene, ma li sa anche manipolare abilmente, non perde questa occasione per riproporre il modello che ha ben fermo in testa. Faccio un esempio: nell’articolo sui voti (La Stampa del 18 maggio) scrive che Pisapia ha vinto «ma (sic. ndr) in termini assoluti Pisapia ha preso 4000 voti in meno del candidato sindaco del centrosinistra alle precedenti elezioni Bruno Ferrante». Intanto non sono 4000 ma solo 3625 (da 319.487 a 315.862 se i dati del sito del Comune sono veritieri) e con i numeri non si scherza, soprattutto quando si gioca sul filo di lana e si è pignoli come Ricolfi, che perdipiù parla con l’autorità di un cattedratico di «Analisi dei dati». Che però dimentica di far sapere al lettore che in quello stesso periodo il corpo elettorale si è ridotto di 34.699 unità quindi del 3,65% e che perciò in ogni caso la differenza va deflazionata di questo indice; così facendo si scopre che Pisapia ha diminuito i propri voti, ma meno della diminuzione del totale e più precisamente solo dell’ 1,13. Quindi ha in effetti guadagnato o fatto meglio di Ferrante del 2,23% rispetto alle comunali del 2006 – ammesso che sia un giusto confronto, ma io mi limito a seguire la linea proposta da Ricolfi – in realtà si dovrebbe ragionare un po’ più di fino perché nel frattempo il corpo elettorale è diminuito, ma è anche cambiato. Come minimo in 5 anni sono uscite 5 coorti di vecchi ed entrate 5 coorti di giovani. Ma il punto rilevante è un altro: Ricolfi se da un lato presenta Pisapia come un pochino perdente invece che un pochino vincente, come dovrebbe, due righe sotto usa la tecnica opposta per la Moratti, cui fa uno sconto (facendo forza persino a una elementare sottrazione) di ben diecimila voti: «Lunedì a Milano ha più che altro perso la Moratti: da 353.409 voti è precipitata a 273.401 voti: settantamila voti in meno» (corsivo mio, p. 12 seconda colonna, primo capoverso). Chiunque vede subito a occhio che i voti persi sono ottantamila, non settantamila (più esattamente 80008), e anche deflazionando del 3% circa, dovuto alla diminuzione dell’universo, sono il 19% in meno, uno su cinque. L’ideologia gioca brutti scherzi.
Ricolfi, e con lui molti altri, deve assumere la posizione di giudice imparziale e ripropone la sua tesi che la sinistra è antipatica e che non ha leader. Vero anche questo, se cade Berlusconi è abbastanza facile che con lui cadano non solo i diadochi, ma anche tutta una dirigenza di sinistra che, diciamo la verità , è stata ipnotizzata da Berlusconi, che ammira i suoi exploit tattici con l’apprezzamento che i veri professionisti hanno per chi è più bravo di loro. Ma proprio per questo le prediche di chi si perde dietro l’abilità di Berlusconi e dei vari guru in the box sono state paralizzanti. Il risultato è stato un colossale miedo a ganar che porta a rifiutare ogni tentativo di innovazione. Nelle parole dell’occhiello sulla Stampa nell’articolo scientifico di Ricolfi si legge «ha ragione Ferrara. Il centro-destra è alle corde, ma fa male la sinistra a cantare vittoria, è egemonizzata dalle estreme». A parte il ridicolo (che dovremmo fare, metterci a piangere perché l’elettorato ha dato un cazzotto in faccia a Berlusconi e Moratti?) una affermazione così la può fare Ferrara che ha un rapporto piuttosto vago con la realtà , ma non può essere ripresa come verità autorevole da chi si picca di essere preciso. Fassino sarebbe un estremista? Fa ridere. Il Pd di Bologna sarebbe composto di estremisti? C’è da sganasciarsi. Chi è l’estremista? Bersani? Ragazzi! Il più estremo della compagine è Vendola che al di là delle alate parole sul buonismo mondiale non si è mai sentito dire nulla di lontanamente comparabile alle volgarità estreme dette da Berlusconi, con le sue barzellette sulle cameriere, dalla Moratti-dai-colpi-bassi (nel senso che si spara nei garretti) dalla Santanchè (con-quella-bocca-può-dire-quello-che-vuole e, modestamente, lo disse) eccetera. Sarebbe estremista Pisapia? L’elettorato milanese ha già risposto con un NO! Andiamo a vedere i nomi dei consiglieri comunali già eletti con Pisapia. Dei famosi centri sociali o del Leonka non ce ne è uno. Estremisti Stefano Boeri o Francesco Majorino che è stato cinque anni in consiglio comunale per il Pd? Estremista Daniela Benelli, per anni assessore alla cultura del Pd? Il più estremista di tutti potrebbe essere Basilio Rizzo, in consiglio comunale da tempo immemorabile, che di estremo ha solo il rigore con cui ha sempre contestato le porcherie del potere, anche prima della Moratti. Forse l’estremista è il giovane 5 Stelle Calise? Tra i sostenitori esterni di Pisapia, ne elenco alcuni tra i più temibili: don Virginio Colmegna, Valerio Zanone, liberale, Ludina Barzini liberale, Piero Bassetti, che non ha bisogno di presentazioni, l’ex sindaco socialista Carlo Tognoli, l’avv. Lodovico Isolabella di tradizione monarchica, tutti sfegatati leoncavallini e la lista sarebbe molto molto lunga. Sul Corriere anche il prof. Della Loggia, svegliatosi come Rip Van Winkle dopo ventanni, annuncia solennemente la scoperta dell’ultima ora «Le elezioni non si vincono con la tv e con gli annunci». Bravo, peccato che invece così è avvenuto per vent’anni e allora occorrerebbe chiedersi chi ha dato una mano all’ipnosi collettiva. Ah ho capito, forse l’estremista è De Magistris, ma se lo sono voluto quelli della cosiddetta sinistra moderata. A me sembra piuttosto uno che è stato cacciato via perché aveva scoperchiato alcune pentole fetenti là dove comanda la ‘ndrangheta.
Cosa non ci è stato detto dai dirigenti del Pd locale di Milano quando abbiamo liberamente (e sottolineo) scelto Pisapia con le primarie! La più bizzarra fu che poiché il Pd era il maggior partito aveva il dovere, oltre al diritto, di presentare un proprio candidato alle primarie. Detto e fatto, il candidato Pd, che era di prima qualità , ha perso, tra l’altro, proprio perché targato Pd. Io credo che guadagneremo tutti, a partire dal Pd, che è il mio partito, il giorno in cui la dirigenza si convincerà che non è «il partito egemone della sinistra», ma al massimo un primus inter pares, che però deve guadagnarsi questa qualifica ogni giorno sul campo e contemporaneamente, se praticassimo un po’ di quella recovery of nerve, che secondo Peter Gay fu la preparazione per l’illuminismo alla fine del Medioevo, forse ci aiuterebbe a vedere più chiaro. La battaglia per il ballottaggio non è finita, non si vince fino a che l’ultimo voto sarà contato e dall’altra parte hanno moltissimi soldi. Ma la Grande Guerra contro il gangsterismo berlusconiano è già cominciata ed è cominciata dal basso: questo è il vero fatto rilevante.
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