“Antiterrorismo e obiettivi mirati vince la nuova strategia degli Usa”

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NEW YORK – «L’impatto di questo evento è enorme non solo su Al Qaeda ma su tutto il mondo islamico: l’uccisione di Bin Laden si aggiunge alle rivoluzioni tunisina ed egiziana, nel segnare la fine di un’ideologia». Fareed Zakaria, il più autorevole analista geopolitico per Cnn e Time, appena rientrato dall’Egitto, in questa intervista a Repubblica traccia il primo bilancio dopo la morte dello stratega dell’11 settembre. Perché Barack Obama ce l’ha fatta a centrare il bersaglio che a George Bush era sfuggito durante i suoi due mandati? «La fortuna gioca sempre un ruolo nella storia, e naturalmente l’ha avuto anche in questo caso. Ma una spiegazione cruciale sta nel fatto che Obama ha spostato nettamente le priorità : dall’ambizioso piano di “nation-building” di Bush è passato a una strategia coerente di antiterrorismo. Con questo presidente c’è stata una enorme concentrazione di risorse sull’antiterrorismo. L’aspetto più visibile è stato il potenziamento nell’uso dei droni in Pakistan, le cui missioni sono addirittura quadruplicate. Ciò è stato possibile anche perché Obama ha costretto il Pakistan ad accettare questa escalation. E dietro l’uso dei droni c’era molto di più, tutto l’arsenale dei mezzi a disposizione dell’antiterrorismo è stato rafforzato con una focalizzazione precisa di obiettivi. Rispetto ai piani di Bush di costruzione della democrazia in Iraq e in Afghanistan, con Obama si è passati a una visione più realista, una strategia in cui l’America si dava obiettivi più limitati, al servizio dei quali mobilitare tutta la propria potenza militare e di intelligence». La Casa Bianca si affretta a smorzare i trionfalismi: attenzione, ammonisce, Al Qaeda non è finita. «L’Amministrazione Obama ha il dovere di essere prudente, sta di fatto che la scomparsa di Bin Laden è un colpo micidiale, mette a nudo la debolezza di Al Qaeda. Senza il suo leader, il suo ideologo, ciò che resta di questa organizzazione rischia di diventare come i pirati somali: fanno dei danni, certo, ma nessuno si sogna di considerarli come una minaccia strategica per la sicurezza dell’Occidente». Quali saranno gli effetti nell’insieme del mondo arabo? «Saranno devastanti per Al Qaeda, perché si sommano ai movimenti in atto dall’inizio di quest’anno. Tutto questo grande risveglio del mondo arabo è avvenuto in termini ben diversi da come avrebbe voluto Al Qaeda. L’ideologia di Bin Laden aveva due presupposti fondamentali. Primo: che i regimi dittatoriali del mondo arabo si reggono grazie al sostegno degli Stati Uniti. Secondo: che l’unico modo per rovesciarli consiste nell’usare la violenza, per poi sostituire i vecchi dittatori con dei regimi islamici. Ma dalla Tunisia all’Egitto abbiamo visto in azione dei movimenti che sono stati non violenti, e non sono diretti alla creazione di regimi islamici. Tutto questo aveva già  avuto effetti tremendi su Al Qaeda. Non a caso, dall’inizio delle rivolte tunisina ed egiziana non si è avuto un documento chiaro di Al Qaeda che desse una valutazione di quegli eventi». Per Obama, invece, questo successo arriva proprio mentre stava serpeggiando un certo malumore per la sua politica in Medio Oriente. Dall’Egitto fino ai casi più recenti di Libia e Siria, il presidente cominciava ad essere criticato per un eccesso di prudenza. Dai falchi di destra agli ultra-umanitari di sinistra, molti avrebbero voluto vedere una “spallata” di Obama contro i despoti… «Invece Obama ha tratto le conclusioni più corrette da questi eventi: che sono un risveglio del mondo arabo, non un fenomeno d’ispirazione americana. Io ho appena incontrato i leader che sono stati all’origine della rivolta contro Mubarak in Egitto e mi hanno ribadito questo concetto con chiarezza: “questa è la nostra rivoluzione”, mi hanno detto, “lo è stata fin dall’inizio, non cercate di appropriarvene”. Gli Stati Uniti tendono a dimenticare che l’orgoglio nazionale può essere una fonte di motivazione formidabile. Obama questo lo ha capito, anche per quanto riguarda la Libia. Qualsiasi cosa accada, è molto importante che quelle rivoluzioni rimangano in tutto e per tutto in mano a quei popoli, guai se dovesse essere la Nato a “deporre” un despota come Gheddafi». Come valuta gli eventi di questi mesi, fino all’uccisione di Bin Laden, nel quadro del declino dell’egemonia secolare degli Stati Uniti? Vede un filo conduttore tra l’annuncio di vittoria di ieri, e il discorso che Obama fece il 4 giugno 2009 all’università  del Cairo, lanciando una nuova èra di dialogo con l’Islam? «Per capire l’intero fenomeno del risveglio arabo in atto da alcuni mesi, bisogna fare un passo indietro e ricordare che l’America è stata l’ultima di una serie di potenze imperiali in Medio Oriente. Prima ci fu l’impero ottomano, poi i colonialismi britannico e francese, infine la concorrenza Usa-Urss all’epoca della guerra fredda quando ciascuna superpotenza proteggeva i suoi Stati-clienti. Alla fine, erano rimasti gli Stati Uniti da soli. Ma negli ultimi sei o sette anni ha cominciato a farsi strada la consapevolezza che l’America non avrebbe più avuto né la capacità  né la volontà  di esercitare il vecchio ruolo imperiale. Già  nell’ultima fase di Bush cominciò una questa presa d’atto che l’America era ormai “dilatata” oltremisura dopo due guerre. Con Obama più che mai si è capito che il gioco imperiale alimentava ogni estremismo anti-americano. Questo è stato un fattore scatenante del risveglio arabo: le opposizioni hanno compreso che finalmente i dittatori non avrebbero più trovato sostegno negli Stati Uniti».


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