“Contatto! Ecco Geronimo” il giorno più lungo di Obama nella cabina di regia del blitz

by Editore | 4 Maggio 2011 7:44

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Un americano tranquillo, pronto per tagliare l’erba nel prato o per lanciare l’operazione militare a diecimila chilometri di distanza che potrebbe distruggere la sua vita politica per sempre o uccidere il nemico pubblico numero uno dell’America. Sono passate due ore da quando ha pronunciato nel mattino le quattro parole fatali: «It’s a go». Si va. «Contatto visivo» rimbomba la voce di Leon Panetta, il direttore della Cia, dagli altoparlanti della Situation Room nei sotterranei della West Wing, in quell’ala ovest della Casa Bianca che ci sembra di avere visitato di persona mille volte, perché sempre l’America somiglia ai propri film e i film raccontano l’America. Panetta è il telecronista, il dj, il Virgilio di questa tragedia che scuoterà  il mondo. Panetta è collegato dal settimo piano del palazzo della Cia, un chilometro in linea d’aria sull’altra riva del fiume Potomac. Sugli schermi davanti agli occhi sbarrati di Obama, del suo vice Joe Biden, del ministro della Difesa Bob Gates, del generale Marshall Webb in uniforme e crosta di nastrini che smanetta al suo Pc portatile, di Hillary Clinton in giacca sportiva che si copre la bocca con la mano, nel gesto di una madre che vede il proprio figlio attraversare la strada nel traffico e dietro di lei, piccolina sullo sfondo fra tanti maschi, l’unica altra donna, Audrey Thomasson, capo dell’ufficio antiterrorismo. «Visual», confermano i tecnici della Casa Bianca e un triangolo di diecimila chilometri, fra la Cia, la Situation Room e il fortino di Bin Laden in Pakistan si chiude attraverso le web cam, le minicamere agganciate agli elmetti dei commando della Marina rimbalzando dai satelliti spia. Era stato l’uomo in giubbotto blu, l’unico afroamericano in quella batteria di mammasantissime della superpotenza, a dire, due ore prima: «It’s a go», si va, la frase canonica. A trasmettere al direttore della Cia, al capo di stato maggiore, al consigliere per la sicurezza nazionale, Tom Donilon, che ora troneggia più alto di tutti, l’ordine di «capture or kill», cattura o uccidi. «Abbiamo sentito una scossa elettrica percorrerci la schiena», dirà  Panetta, che come direttore della Cia era il responsabile del piano e della sua esecuzione, fino al momento in cui gli 80 Seals, i commando della Marina, sarebbero atterrati nel giardino della villa da mezzo ettaro di Osama. È il pomeriggio di una domenica che tutta l’America credeva qualsiasi, un giorno nel quale le televisioni ripetevano ancora le battute e gli sfottò lanciati la sera prima dal Presidente contro i suoi avversarsi, alla cena annuale dei giornalisti. È l’ora finale di una sequenza di 16 ore cominciate quando dal quartiere generale Panetta, i suoi analisti e il «desk» dell’Operazione Geronimo, il nome di un nobile guerriero Apache dato all’ignobile nemico forse per non dare indizi, avevano confermato che il corriere kuwaitiano che portava i messaggi a Osama aveva certificato che il simbolo e l’incarnazione di Al Qaeda era proprio laggiù, nel giorno che i cristiani chiamano domenica. Sono le 14 e 00. «Quattordicicento» dicono i militari presenti nel loro gergo. Da pochi minuti, è rientrato da una umile missione poco oltre il fiume di Washington, in un emporio discount oltre il fiume che vende all’ingrosso cibi e indumenti chiamato Costco, un galoppino spedito a comperare bibite, patatine, confezioni di petto di tacchino per quella che molti prevedono sarà  una veglia estenuante. Nelle ore della notte, Obama aveva preso la decisione finale: non bombardamenti. Il generale Webb, un aviatore, aveva spiegato come i B2, i bombardieri invisibili ai radar e i vecchi B52 avrebbero potuto distruggere il fortino di Osama. «Abbiamo calcolato che occorrerebbero 32 bombe a guida laser da 2 mila libbre (una tonnellata) ciascuna per annientarlo». E cosa sarebbe rimasto poi? «Un enorme cratere con qualche briciola carbonizzata», aveva confermato l’ammiraglio Mullen, il capo di Stato Maggiore della Difesa, che nella “foto di famiglia” dentro il film della domenica senza ritorno vediamo in maniche di camicia, da borghese. «No», aveva risposto il presidente. Restava soltanto l’opzione degli elicotteri lanciati dalle basi in Afghanistan, con tutti i rischi di un volo radente di 300 chilometri andata e ritorno, in territorio straniero. «Voglio redundancy», aveva chiesto Obama, voglio che ci siano più mezzi di quanti siano necessari «nel caso ci sia un incidente». Sarebbero bastati due elicotteri, ne saranno inviati quattro, e infatti uno di loro si guasterà  e sarà  fatto esplodere. Arrivano le 14 e 05, quando la diretta dall’altro mondo comincia. «Sono entrati in Pakistan», risuona la voce di Panetta. Joe Biden, il vice presidente, si ricorda di essere cresciuto cattolico e comincia a sgranare fra le dita i grani di un rosario. Saranno i 40 minuti più lunghi nella vita di tutti gli uomini e le donne presenti, ma di nessuno come di Barack Obama che guarda nelle immagini sgranate rimbalzate da Abbottabad passare tutto il suo futuro e il suo posto di gloria o di ignominia nella storia della nazione che presiede. Tutti pensano a «Black Hawk Down», all’elicottero caduto a Mogadiscio, o alla missione lanciata da Carter e consumata invano nel deserto iraniano. «Sono sull’obiettivo», li scuote Panetta, che deve dimenticare il suo dna calabrese, notoriamente caldissimo quando era deputato, per restare freddo. «Geronimo!», grida, il nome in codice che era anche l’urlo di guerra che i paracadutisti americani lanciavano per farsi coraggio buttandosi nel vuoto, e qui il suo tono si alza, dirà  John Brennan, uno dei consiglieri della Casa Bianca, «Abbiamo un visual di Geronimo». È Osama Bin Laden, inquadrato dalla web cam del commando. Il Presidente, nelle foto ufficiali, si fa piccolo, accucciato dietro le figure in primo piano, mentre la Clinton, forse l’unica a mantenere il sangue freddo, si preoccupa di coprire un documento classified, segreto, che qualcuno aveva lasciato sul tavolo senza pensare che sarebbe finito nelle foto pubbliche È una comunicazione a senso unico. Le immagini via web e satellite non hanno audio. Il Presidente e i suoi possono vedere, ma non sentire, questo film muto della storia in atto. Non sappiamo, ma lo sapremo, se vedano il ragazzo in uniforme con la web cam nell’elmetto prendere la decisione che nessuno per lui può prendere. Premere il grilletto del suo fucile semiutomatico, in posizione di un colpo alla volta perché soltanto nei film i commando spruzzano raffiche, per due volte, e centrare Osama alla testa e al petto. «Ekia. Abbiamo un Ekia» spiega clinico Panetta, come se facesse il commento a un’azione di baseball. Un «Enemy Killed in Action», nemico abbattuto e ucciso in azione. Nessuno applaude, nessuno grida. Audrey, quella dell’antiterrorismo che sembra una ragazzina in visita con la frangetta e si deve contorcere per vedere lo schermo alle spalle di stangoni tutti più alti di lei, ha gli occhi sbarrati. Nel silenzio, si sente una voce baritonale. «L’abbiamo preso». We got him. È la voce di Obama. Sono le 14 e 45. Gli americani in giubbotto mangiano hot dogs negli stadi di baseball senza sapere che questa partita è chiusa. Bin Laden è morto. Obama è ancora vivo.

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