“Non lasciateci nelle mani dei pirati”
NAPOLI – «Siamo allo stremo delle nostre forze fisiche e mentali. Vi preghiamo di non abbandonarci al nostro amaro destino, fatelo soprattutto per le nostre famiglie che stanno soffrendo a casa». La disperazione arriva via fax. Numero a quattordici cifre con prefisso internazionale, due pagine scritte in stampatello chiaro e ordinato. Tra le righe c’è la paura. L’angoscia di chi non vede sbocchi o soluzioni alla prigionia. La lettera è firmata dal comandante e dal direttore di macchina. È partita dalla “Savina Caylyn”, la petroliera della società armatrice napoletana Fratelli D’Amato sequestrata dai pirati al largo della costa Somala lo scorso 8 febbraio.
Tre mesi e mezzo di attesa e speranza per l’equipaggio di cinque italiani e quindici indiani, l’assurda richiesta di un riscatto di sedici milioni di dollari. E ora, a trattativa interrotta e ultimatum per il pagamento scaduto, non resta che affidarsi a un fax che arrivi in patria, ai giornali, perché «possa qualcuno di buona volontà aiutare la nostra società che, essendo una piccola azienda, ha le sue evidenti difficoltà finanziarie a pagare il riscatto. Ci appelliamo alla vostra pietà e a quella del popolo italiano, soprattutto del nostro governo affinché risolva al più presto questa terribile situazione… ».
Il governo. Proprio ieri il sindaco di Procida (l’isola del golfo di Napoli da cui sono partiti due membri dell’equipaggio), Vincenzo Capezzuto, ha riferito che «la Farnesina ha escluso ufficialmente che tre marittimi della “Savina Caylyn” siano stati sbarcati per essere portati in una località nel deserto dopo la scadenza dell’ultimatum». Era quella la reazione dei pirati più temuta, ma il ministero degli Esteri l’aveva esclusa grazie al monitoraggio via satellite della petroliera. In serata via fax scrivono invece il comandante Giuseppe Lubrano Lavadera e il direttore di macchina Antonio Verrecchia: «Sono trascorsi oramai tre mesi e mezzo di stenti e sofferenze durante i quali la nostra compagnia di navigazione non è riuscita a risolvere il negoziato, affermando che la trattativa era in corso per il nostro rilascio. Invece l’amara realtà è che il negoziato è bloccato da più di due mesi, quindi il gruppo dei pirati per porre ulteriore pressione ha trasferito tre nostri connazionali – il primo ufficiale Eugenio Bon, il terzo ufficiale Crescenzo Guardascione e l’allievo di coperta Gianmaria Cesaro – a terra con evidente e ulteriore pericolo per la loro vita». È forse proprio questo il motivo per cui i pirati somali hanno permesso ai prigionieri di inviare il fax carico di disperazione. «Più passa il tempo – si legge – più i pirati si innervosiscono nei nostri confronti. Viviamo in una situazione tragica con scarsità di cibo, acqua e combustibile. I medicinali sono finiti e alcuni membri dell’equipaggio presentano malattie della pelle e traumi. Il pericolo di perdere la nostra vita è incombente e continuo, infatti siamo segregati e viviamo tutti sul ponte sotto la continua minaccia di armi automatiche, così che qualsiasi alternativa che non sia il pagamento del riscatto è impossibile e impraticabile. Ci rimettiamo al vostro buon cuore e allo spirito di fratellanza di voi fratelli e sorelle italiani…».
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