Quell’isola di follia in agguato e dentro ognuno di noi

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Psicopatologia della vita quotidiana, una delle opere più famose di Sigmund Freud fu pubblicata nel 1901. Parlando di lapsus e di amnesie, di sogni e di atti mancati, il padre della psicoanalisi e della moderna psicoterapia metteva in evidenza il modo in cui l’inconscio e le sue follie irrompono normalmente nella vita della persona normale. Condizionandoci e riportandoci di continuo all’imperfezione del nostro funzionamento mentale, al dubbio di cui non dovremmo mai liberarci sulla nostra capacità  di essere davvero padroni, in ogni momento, del nostro pensiero e delle nostre azioni. La consapevolezza di questa imperfezione dovrebbe essere (e spesso è) un segno importante del nostro livello di maturità  personale. Lo dimostra, meglio di qualsiasi altro esempio, il modo appassionato, fermo, pieno di dolore e di pietà  in cui la madre della bambina morta tragicamente a Teramo difende oggi il suo compagno. Parlandone come di un padre straordinario. Riuscendo a restargli vicina anche dall’interno di uno strazio come quello da cui è palesemente travolta. Usando la dolcezza della comprensione invece della lama fredda del giudizio nel momento in cui quelli che vengono colpiti così duramente sono i suoi affetti più cari. La sua stessa vita.
Vale la pena di riflettere davvero molto seriamente su questa straordinaria lezione di stile. “Perdona il peccato, non il peccatore” è sicuramente il più bello e il più importante degli insegnamenti di Gesù nel momento in cui il Vangelo propone di sostituire il perdono alla vendetta “giusta” del Dio insegnato dal Vecchio Testamento. Accettare e praticare questo insegnamento chiede, tuttavia, una capacità  appunto straordinaria di vedere
il fatto per cui l’uomo che sbaglia è sempre e solo un uomo che fa del male a se stesso oltre che all’altro e che non trae mai nessun vantaggio sostanziale dal suo errore. Un essere umano come noi da aiutare con la vicinanza. Da non distanziare con la durezza del giudizio di quelli che hanno bisogno di sottolineare gli errori degli altri solo per dimostrare, a se stessi prima che agli altri, di essere migliori di loro. Viviamo un tempo assai difficile proprio da questo punto di vista. Dai giochi della Playstation alla vita reale, dal mondo dello sport a quello del lavoro, quella in cui viviamo immersi è una competizione senza sosta che non concede nessun perdono. Dove in ogni momento c’è qualcuno che sbaglia e viene eliminato e dove tutto si muove in fretta e sempre più in fretta nella grande corsa ad ostacoli in cui si è trasformata la nostra vita di tutti i giorni. Un mondo in cui lo spazio per chi è più debole si riduce ogni giorno di più ed in cui la paura di perdere rende sempre più feroce la gara in cui si è ingaggiati anche senza volerlo. È proprio di questo, mi pare, che parla a noi tutti la madre della bambina che non c’è più. Duramente rappresentandosi l’assurdità  della condizione in cui siamo costretti e abbiamo accettato di vivere. Correndo da un impegno all’altro senza riuscire più, spesso, a sistemarli all’interno di una gerarchia dotata di senso e senza più provare a volte il tempo necessario per noi e per le cose più importanti. Per la salute e per l’amore di ciò che vi è di più caro. Fino al momento in cui qualcosa dentro si rompe e non funzioniamo più come vorremmo e dovremmo. Travolti dalle isole di follia che sono sempre in agguato. Dentro tutti noi e dentro ognuno di noi.


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