A Pomigliano fuori 6 su 10

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Giovedì la Fiat ha inviato ai sindacati due comunicazioni differenti per le modalità  della cassa integrazione nello stabilimento Giambattista Vico (Pomigliano) e quello di Nola (considerato spesso una sorta di «reparto confino»). Cinque pagine per dettagliare la cig «per cessazione di attività », gonfie di ricostruzione storica, valutazioni di mercato, ecc, in cui «la ciccia» è racchiusa in poche righe. Tra il luglio di quest’anno e quello del 2012 a Pomigliano verrà  assunto soltanto il 40% dei lavoratori che popolavano lo stabilimento; ma naturalmente la cifra esatta dipenderà  «dalle condizioni di mercato», se accetterà  con entusiasmo la Panda ridisegnata per il passaggio dalla polacca Tichy al sito campano. Altrimenti potranno essere anche meno.
Uno schiaffo senza precedenti a tutti i lavoratori, costretti a rinunciare ai diritti e al contratto, frutto di lunghe e difficili stagioni di confronto con l’azienda in cambio del miraggio del «grande investimento» (la cifra è sempre stata molto ballerina), nonché alla sterminata massa della claque pro-Fiat. Ma anche un elemento che non mancherà  di entrare nella discussione della causa che inizia proprio stamattina a Torino, in cui la Fiom Cgil sostiene che tutta l’operazione – autolicenziamento come condizione di riassunzione nella newco chiamata Fabbrica Italiana Pomigliano (Fip) – è sostanzialmente una truffa che aggira l’art. 2112 del codice civile; secondo cui a ogni cessione di azienda i dipendenti mantengano inquadramento, salario, condizioni contrattuali della società  di provenienza. Tanto più quando, come in questo caso, gli stessi lavoratori (e ora sappiamo anche che saranno solo 4 ogni 10) entreranno nello stesso stabilimento per costruire auto con lo stesso marchio, per conto dell’identico cda (Marchionne et alii).
Anche per il sito di Nola, che invece sarà  investito dalla cig «per ristrutturazione», sotto le frasi altisonanti che parlano di un progetto teso a farne «un polo di eccellenza», che possa fungere da riferimento per il Mezzogiorno, ecc, spunta l’ipotesi terziarizzazione. Ossia della vendita.
I conti sono dunque presto fatti: forse 2.000 dipendenti su poco più di 5.000 otterranno un posto in condizioni molto peggiori, con l’annullamento del diritto di sciopero e una «tutela sindacale» ristretta solo alle sigle «complici» (Fim, Uilm, Fismic) che hanno firmato un «accordo» che Fiat oggi considera niente più che un atto di resa, non vincolante – nemmeno quello.
Dalla Fiom – indicata come «l’unico ostacolo al grande investimento», come «organizzazione spinta da ragioni ideologiche o politiche» – arrivano commenti oscillanti tra l’indignato e il sarcastico. Francesco Percuoco, delegato a Pomigliano, ricorda che «fin dal primo momento, a parte le considerazioni strettamente contrattuali, eravamo consapevoli che la Panda non poteva essere il modello giusto per questo stabilimento». Un modello «maturo» e di fascia bassa, «con pochissimo valore aggiunto e bassi margini». Spiega come per l’indotto i problemi siano già  ora gravissimi. Alla Plastic Componenti, che fa paraurti e plance per l’Alfa, la cig ha già  colpito gli impianti di Caivano, Marcianise, Pomigliano, mentre quelli di Napoli saranno spediti per metà  proprio alla «Fip» e per metà  resteranno nel capoluogo; ma «senza missione produttiva», ergo in attesa di chiusura.
Decisamente sintetico il giudizio del segretario generale, Maurizio Landini: «Il piano industriale di Marchionne è così segreto che non lo conosce più neppure lui».


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