Afganistan: 400mila sfollati interni

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Quale è al momento la situazione degli sfollati interni in Afghanistan?

Le nostre statistiche parlano attualmente di 400mila persone. Questo naturalmente è il numero che abbiamo analizzato dal 2003 in poi. Molti di questi 400mila sono persone che sono in situazione di sfollamento da vari anni. Si sono mosse addirittura dal periodo russo e dal periodo appunto dei mujahedin e si trovano particolarmente nel Sud. Poi c’è un’altra categoria che sono quelle persone che hanno cominciato a muoversi dovuto proprio al conflitto tra l’Isaf, la Nato, le Forze Afghane e l’insorgenza. Quello che possiamo dire è che questo trend di persone che si muovono dovuto al conflitto della Nato e l’Insorgenza sta aumentando dall’anno scorso. Se verifichiamo i dati abbiamo un 53 per cento in più, rispetto allo stesso mese l’anno scorso, di persone che si sono mosse allontanandosi dalle zone del conflitto.

Quali sono le zone più colpite?

La maggior parte degli sfollati si trova nella zona Sud, la zona di Kandahar e dell’Helmand. Ma stiamo notando con preoccupazione anche movimento di civili nel Nord, dalla zona di Herat alla zona di Mazar e-Sharif. Questo dovuto a operazioni militari particolari che stanno avvenendo appunto nella zona di Faryab, nella zona di Balkh, nella zona di Kunduz. È un trend che ci fa capire che operazioni militari contro l’insorgenza non si svolgono solamente nel Sud del Paese, quindi nella cintura Pashtun che va da Kandahar fino alla zona del Nuristan, nell’Est del Paese, coprendo anche Gardez e Kosth, ma ci sono delle sacche di insorgenza, adesso, anche nel Nord.

Come una famiglia decide di lasciare la propria abitazione e le proprie terre?

Dipende, ci sono movimenti di prevenzione, quando magari c’è il sentore nell’aria che una operazione militare possa avvenire in quella zona e quindi la gente si sposta un po prima, o anche vengono avvisate dal governo, spostatevi perché ci sarà  una operazione, o il movimento è immediato, quando magari i primi colpi di mitraglia si cominciano a sentire. Quando c’è un intervento militare specifico, come nella zona di Faryab, intorno al 26, 27 maggio, dove c’è stata una operazione militare ben precisa, questo tipo di intervento provoca un movimento di massa. Stiamo monitorando e assistendo il movimento di 12mila persone che si sono appena spostate dalla zona. Venti villaggi sono stati impattati dall’operazione militare e si trovano adesso in assistenza. Alcune di queste persone riescono a trovare ospitalità , chi non trova accoglienza, come nel caso anche di Faryab, è perché si sposta con gli animali e si trovano a vivere in zone deserte.

Sono aumentate le operazioni militari?

Il 2010 è stato un anno in cui abbiamo notato una certa escalation di operazioni militari mirate e queste hanno provocato un incremento di un buon 50 per cento in più di sfollati interni, se paragoniamo i dati dell’anno scorso. Quello che notiamo è che gli sfollati che si muovono dovuto all’intervento militare, mentre gli anni precedenti si spostavano, stavano via, quando l’intervento militare finiva rientravano, oggi i nostri dati e il nostro monitoraggio ci dicono che non rientrano immediatamente. Quindi c’è un senso un po di paura, un po di scoraggiamento. E quindi stanno un po più a lungo in rifugio. Rientrano più tardi. Molto più tardi.

Come sono cambiati i trend negli ultimi anni?

Nel 2002, in un anno, sono rientrati un milione e mezzo di profughi dal Pakistan e dall’Iran. Indubbiamente, quello, è stato l’anno della grande speranza, perché la stabilità  di un Paese si misura anche attraverso il ritorno dei propri cittadini. E devo dire che fino al 2005-2006 abbiamo visto il trend del ritorno aumentare sempre più. Dal 2009 ad oggi abbiamo percepito una situazione della sicurezza che non ha favorito lo sviluppo dello spazio umanitario, quindi del movimento libero attraverso il Paese. Oggi noi giriamo con macchine blindate, in alcune zone dobbiamo richiedere la scorta della Polizia locale. Vorremmo farne a meno di questo, però dobbiamo adeguarci a determinate regole imposte dall’ONU. Adesso la sfida è proprio questa. Trovare altre metodologie di lavoro per poter accedere ai nostri beneficiari, alla gente che ha bisogno della prima risposta di emergenza.

Andrea Bernardi


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