Chernobyl, zona vuota della memoria

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«Guardare ma non toccare!» Concetto fondamentale, oggi, per chi vive nella zona contaminata attorno al reattore 4 della centrale nucleare di Chernobyl, esploso dopo un semplice controllo di routine il 28 aprile 1986 e rimasto a bruciare fino al 10 maggio successivo. Ce lo ricorda Alan Gardini, fotografo bolognese, reporter per passione, che nel settembre 2006 è andato a visitare quel sito dannato per raccogliere testimonianze visive. L’abbiamo incontrato per parlare del suo libro autostampato, disponibile in rete sul sito www.progettohumus.it dell’associazione Mondo in cammino, nata per far conoscere il problema nucleare e per dare sostegno a persone rimaste contaminate nel Caucaso, e dove per altro si trovano parecchie informazioni a riguardo.
Da dove nasce il tuo interesse per Chernobyl?
Sono stato incuriosito sin da piccolo, da quando il 30 aprile 1986 dovetti festeggiare il mio undicesimo compleanno chiuso in casa, nonostante ci fosse una splendida giornata di sole.
Come ti sei organizzato?
Ho iniziato le ricerche entrando in contatto con Massimo Bonfatti, presidente di Mondo in cammino, che mi ha dato subito l’indirizzo mail della Chernobylinterinform Agency attivata da subito in loco per aiutare le persone dopo il disastro. Lo dico, perché le mie lettere scritte ad ambasciate e ministeri sono tutte rimaste senza risposta.
Hai avuto finanziamenti e quale è stato il percorso che hai scelto?
Mi sono autofinanziato il viaggio a Kiev. I ragazzi dell’Agency sono venuti a prendermi in macchina all’albergo, e uno di loro mi ha fatto da guida dentro la zona chiusa. C’erano due ore e mezza di strada da fare, mentre le autorità  mi avevano concesso dodici ore di sosta all’interno.
Cosa intendi per «zona chiusa»?
È la zona contaminata dall’incidente suddivisa in tre aree, per cui ci vogliono tre permessi di accesso: il primo per accedere alla «zona rossa» che corrisponde a 200 qm circa nel nord dell’Ucraina, il secondo per entrare nella città  di Chernobyl, dove tuttora lavorano duecento persone per il mantenimento e la vigilanza del sito mai abbandonato e, inoltre, in un campo con piante sperimentali per assorbire le radiazioni. Il terzo permesso ti fa entrare a Pripyat, la città  fantasma a soli due km dalla centrale e zona più contaminata in assoluto. Ognuno dei tre varchi è presidiato da militari che, prima di riuscire, ti controllano con un dispositivo molto rigoroso per misurare eventuali contaminazioni subite. Se suona c’è una doccia particolare da fare, di cui non so molto perché per fortuna non ho dovuto passarci! Va aggiunto che i militari e il personale che lavora a Chernobyl alternano 48 ore nella zona chiusa ad altrettante passate in zona aperta per decontaminarsi.
Quali sono i ricordi più impressionanti della tua visita?
Che la radioattività  è terribile: non la senti, non la vedi, non la tocchi. A geiger spento tutto sembra normale, ma appena lo accendi, i numeri impazzano. Dopo venticinque anni non c’è più nulla nell’aria, tutto si è depositato sotto forma di una sottilissima polvere sul suolo, sul cemento. Mai andarci quando c’è vento! Infatti non lo permettono, e in ogni caso fanno entrare solo per poche ore.
Come hai trovato Pripyat dopo tanti anni?
Sempre uguale, con qualche ruggine in più, forse. Mi hanno detto che ci vanno due/trecento persone tra fotografi e giornalisti all’anno. Il reattore 4 poi è costantemente monitorato essendo già  piena di crepe la struttura che deve contenere le radiazioni e che è stata appoggiata sull’unica parete rimasta in piedi. Nessuno sa cosa c’è al suo interno e che cosa può accadere se si rompe prima che riescano a costruire la mega-tartaruga prevista per coprire il tutto. E tornando alla domanda: si trovano ancora case arredate con tavole imbandite abbandonate in fretta la notte del 27 aprile, e sono spettrali le strade coi lampioni intatti muniti di insegne metalliche a falce e martello, le cabine del telefono, per non parlare della gigantesca ruota mai inaugurata dentro il parco giochi per i bimbi (doveva essere aperta il 1° maggio, ndr).
Cadaveri della civiltà  in una città  che fu, trasformati per ironia della storia in un museo all’aria aperta di uno stato che fu…
Sì, oggi è una «zona memoria» fermata nel tempo e dentro il museo dedicato a Chernobyl a Kiev, città  in cui tuttora si respira il doppio del valore naturalmente presente di radioattività  nell’aria, sono esposte le tute dei liquidatori: assolutamente inadatte! Si direbbe un «museo monitore» nel presente per un futuro da non costruire. Altro aspetto tragico-assurdo è quello delle maschere anti-gas ritrovate: sono state lasciate da un fotografo che si era voluto creare il suo set e non dalle prove di evacuazione com’è stato scritto in molti casi! Me l’aveva detto la guida, così come i disegni a forma di ombre sui muri sono di un gruppo di artisti francesi in omaggio ai tanti bimbi morti e al silenzio tombale che ora regna tra quei palazzi.


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