La Cina libera Ai Weiwei e Hu Jia ma prevale sempre la ragion di stato

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Per Ai — come ha argomentato un eminente giurista, Jerome A. Cohen — la faccenda è invece più opaca: accusato non formalmente di evasione fiscale, avrebbe «confessato» , ma la sua è una vicenda gestita dalla polizia, sulla quale non si è pronunciato alcun magistrato, e la liberazione pare piuttosto il frutto di trattative in cui contano anche le ascendenze familiari di Ai, il nome internazionale, forse le scarse prove a carico. I casi di Hu e Ai, sommati alle detenzioni di decine di altri attivisti, ribadiscono la difficoltà  della Cina— per usare un eufemismo — a confrontarsi con il diritto di critica e la pluralità  delle opinioni se toccano i nervi sensibili del potere centrale (mentre, va riconosciuto, stampa e web sono in grado di svelare scandali e mettere sotto pressione le nomenklature subalterne). Ecco perché è saggia la cautela mostrata dell’Europa, che a Hu aveva assegnato il premio Sakharov nel 2008 e che ieri invitava a vigilare su cosa succederà  a Hu e famiglia. Le diverse scarcerazioni di Hu e Ai ricordano anche come variegati siano gli strumenti per il controllo sociale e politico maneggiati da una Cina che il 1 ° luglio festeggerà  i 90 anni del Partito comunista. In fondo, con Hu, almeno formalmente lo Stato di diritto è salvo (e qui potrebbe esserci un bandolo per il dialogo): fine pena, appunto. Il caso Ai è invece il trionfo della nebbia. E allora: l’Europa sappia di avere davanti non una Cina monolitica, ma un interlocutore complesso, anche contraddittorio. Che effettivamente modernizza i propri strumenti giuridici e tuttavia li piega alla ragion di Stato. 


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