La credibilità  del rating

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Larry Summers da ministro del Tesoro degli Stati Uniti era considerato uno degli uomini più potenti del mondo eppure soleva dire: «Se esiste la reincarnazione, quando rinasco vorrei essere il mercato obbligazionario». Più potente del ministro del Tesoro americano, è quel mercato da cui dipende il finanziamento dei suoi T-Bonds, i titoli del debito pubblico. Il mercato a sua volta chi ascolta? Le agenzie di rating. Tre in particolare, tutte americane: Standard & Poor’s e Moody’s, che controllano ciascuna circa il 40% del business, Fitch con un altro 15%. Il loro potere è enorme: un downgrading o declassamento del voto di solvibilità  di uno Stato, cambia la percezione di rischio degli investitori che di conseguenza chiederanno rendimenti più elevati sui titoli per compensare la minore sicurezza. Più alti tassi significa un peggioramento dei conti pubblici, quindi tagli ai servizi sociali o aumento delle imposte. L’intera agenda politica di un governo, e il consenso dell’opinione pubblica, subiscono effetti profondi dai rating.
Non è stato sempre così. Anche se le agenzie di rating esistono da 150 anni (la prima fu S&P, nacque nel 1860 per valutare le finanze delle compagnie ferroviarie americane), il loro ruolo si è imposto lentamente. Dal crac del 1929 in poi le tante crisi, le successive riforme a tutela del risparmio, hanno assegnato un ruolo maggiore alle “pagelle” di solvibilità  sulle aziende private. I voti ai governi hanno una storia più recente, è dagli anni Settanta che il finanziamento del debito pubblico ha cominciato ad avvenire in modo consistente sui mercati internazionali. Il mondo del credito è cambiato vorticosamente, è diminuita l’intermediazione delle banche (che in passato facevano in proprio l’analisi dei rischi sui debitori) mentre è aumentato il ruolo dei bond, le obbligazioni, comprate e vendute da vaste categorie di investitori.
Questi investitori non sono solo gli squali di Wall Street, gli gnomi di Zurigo, gli sceicchi arabi, o i predoni degli hedge fund: ci sono anche fondi pensione e compagnie assicurative, da cui dipende il tenore di vita di intere generazioni di pensionati. Perciò le autorità  di vigilanza hanno introdotto in molti paesi il divieto agli investitori istituzionali di comprare titoli che non abbiano un “buon voto”, a garanzia che non faranno crac. Le agenzie di rating offrono davvero questo genere di garanzia? Le critiche contro il loro operato sono severe, in particolare dopo la grande crisi del 2007–2009. Però il tenore di queste critiche è di segno opposto, rispetto al malumore che emana dai governi “bocciati” o minacciati di declassamento. Non troppo severe, anzi troppo indulgenti: questo è stato rinfacciato alle agenzie di rating. Per anni avevano etichettato con “tripla A” (massimo voto) i titoli tossici che contenevano i famigerati mutui subprime.
Ancora prima di quel disastro c’erano stati antecedenti ignobili: Enron, Parmalat, anche lì le agenzie erano state colpevoli di non avere avvistato i segnali della bancarotta. Quegli errori sempre dello stesso segno, sempre per eccessiva indulgenza, erano causati dal conflitto d’interessi alla base del loro mestiere: gli esperti dei rating vengono pagati quasi sempre da chi emette i titoli. Hanno quindi un forte motivo per “chiudere un occhio” sulle magagne dei loro clienti. Lo disse in modo colorito, in una celebre email del 2006, un dirigente di S&P: «Siamo vittime della sindrome di Stoccoloma», cioè simpatizzanti con chi le tiene in ostaggio, i clienti che emettono titoli. Dopo la crisi del 2007–2009 una commissione d’inchiesta del Congresso Usa ha tratto questa lezione: «Le tre agenzie di rating sono state un ingranaggio essenziale nella macchina della distruzione finanziaria». Da allora le proposte per cambiare le regole non sono mancate. L’Unione europea ha sottoposto le agenzie a vigilanza. La Sec, l’authority di controllo sulla Borsa americana, studia la possibilità  di dare “un rating alle agenzie di rating”, chiamandole a rispondere dei loro errori. Il più grande fondo pensione del mondo, quello degli statali della California, ha in corso una causa giudiziaria per rimborso danni contro le agenzie.
Altri si sono mossi per ridurre il monopolio americano delle tre sorelle, viste come le guardiane di un’agenda neoliberista. Il caso più importante è la Cina, con la sua agenzia di rating Dagong che ha “declassato” per prima il debito sovrano degli Stati Uniti (oltre che di Inghilterra e Francia). Tuttavia i mercati non prendono molto sul serio la promessa del presidente cinese Hu Jintao secondo cui Dagong userà  «solo criteri oggettivi». Lo scarso peso di Dagong dimostra che non è facile costruire un’alternativa. Il Parlamento europeo ha discusso l’ipotesi di creare agenzie pubbliche, da opporre alle tre private americane. Quanti investitori si fiderebbero di agenzie manovrate dai governi? Sarebbero più credibili, o al contrario i loro giudizi sarebbero “politici”, viziati da conflitti d’interessi ancora più vistosi? Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, due anni fa disse che «i mercati non dovrebbero prendere troppo sul serio i rating». Ora lo stesso Schaeuble si guarda bene dal ripetere quella frase. I severi giudizi delle agenzie di rating sono i benvenuti oggi, quando la Germania deve fare pressione sul governo di Atene perché tenga fede alle sue promesse di rigore nella spesa pubblica, privatizzazioni, tagli alle prebende assistenziali. E se domani la crisi greca si allargherà  alla Spagna, poi all’Italia? Il contribuente tedesco sarà  ben più allarmato, sempre più restìo a finanziare aiuti ai paesi in difficoltà . Le agenzie di rating saranno issate su un piedistallo, esortate a fare il loro mestiere senza remore e senza indulgenze verso i governi.


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