La nuova questione sociale

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ROMA – Un paese senza futuro, conservatore e incosciente. È il ritratto dell’Italia che emerge dalla nona edizione del Rapporto sullo stato sociale presentato ieri in una tavola rotonda alla facoltà  di Economia della Sapienza dove sono intervenuti, tra gli altri, il segretario della Cgil Susanna Camusso e il presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua. Curato da Roberto Pizzuti, questo rapporto di oltre 400 pagine (pubblicato da Esselibri e Simone) squaderna la gravità  della recessione in cui versa il Belpaese e spiega le ragioni per cui la «questione giovanile» deve essere ormai considerata come la «questione sociale» del nuovo secolo.
Unica in Europa, insieme a Grecia e Ungheria, l’Italia ha negato ai precari e agli autonomi, giovani e meno giovani, la flexicurity, il sistema che compensa la precarietà  dilagante sul mercato del lavoro con un reddito di base. Per capire la gravità  della situazione basta citare un dato: nel 2009 i collaboratori e i precari hanno presentato 10 mila domande di disoccupazione, l’80% sono state respinte per mancanza di requisiti.
A questa dura realtà  se ne aggiunge un’altra forse più inquietante: la mancanza di una copertura previdenziale per chi lavora oggi con un contratto di collaborazione, a partita Iva o con una prestazione occasionale. Sono soprattutto i nati dagli anni Settanta in poi, e comunque tutti coloro che hanno iniziato a lavorare dopo la riforma contributiva del sistema previdenziale nel 1996, a trovarsi in questa situazione. Nel 2035, quando avranno raggiunto i requisiti, riceveranno una pensione inferiore a quella sociale (all’incirca 400 euro).
Il rapporto suggerisce alcune soluzioni per affrontare un’emergenza che la classe politica, di destra e di sinistra, continua ad ignorare: aumentare le aliquote contributive dei parasubordinati al 33%, come previsto per i dipendenti. A parere degli estensori del rapporto si eliminerebbero così le condizioni che incentivano le assunzioni precarie e il buco previdenziale a danno del lavoro stabilizzato. La segretaria Cgil Susanna Camusso ha accettato questa ipotesi perchè il lavoro flessibile deve costare di più di quello ordinario. «Ma bisogna fare attenzione – ha avvertito – nel lavoro precario la contribuzione la pagano direttamente i lavoratori». Pensare che i giovani (disoccupati al 30 per cento), le donne (a sud le disoccupate sono il 43,6 per cento) o le partite Iva (che già  pagano il 27,2 di tasse) se lo possano permettere è «un’eresia». «Lo si può fare solo se l’aliquota è pagata dalle imprese» ha commentato Giuliana Carlino, capogruppo dell’Italia dei Valori in commissione Lavoro.
Visto che il sistema pubblico non garantisce la certezza della pensione, il rapporto sostiene che i fondi pensione privati potrebbero svolgere un ruolo aggiuntivo, ma non sostitutivo, per salvare il salvabile. Se la metà  dei dipendenti rimasti lontani dalla previdenza integrativa versasse la contribuzione aggiuntiva all’Inps, ci sarebbero maggiori entrate pari all’1,4% del Pil, 20 miliardi all’anno, la metà  della manovra che Tremonti sta preparando per l’autunno. Al momento però realizzare questa idea è difficile perché solo il 23% dei dipendenti ha fatto questa scelta, mentre per i precari il problema non si pone per i costi eccessivi. «È un dato preoccupante che non fa bene al futuro delle giovani generazioni – ha affermato il presidente dell’Inps Mastrapasqua – Se l’adesione è il 23% in Italia e il 91% in Europa vuol dire che qualcosa non funziona. C’è bisogno di maggiore competizione nelle previdenza integrative». Nessuna parola è stata pronunciata sullo scandalo della gestione separata, l’unica cassa dell’Inps in attivo che serve a finanziare le altre gestioni e una parte dei 19,3 miliardi di euro necessari per pagare la cassa integrazione per 350 mila persone, ma non le pensioni dei precari e degli autonomi.
Nel ritratto di un paese che ha negato fino ad oggi l’esistenza della «questione sociale», salvo poi accorgersi di trovarsi sull’orlo del baratro, uno spazio particolare viene riservato al taglio delle risorse destinate all’istruzione primaria e a quella universitaria. La spesa complessiva è oggi pari al 4,5% del Pil (la media europea è del 5,3), mentre gli iscritti all’università  diminuiscono al ritmo di 45 mila all’anno. Tra il 2012 e il 2014 le «minori spese» della manovra di Tremonti porterà  questa cifra al 3,7% e nel 2030 al 3,2. Il progetto del governo Berlusconi è insomma quello di liquidare l’istruzione pubblica adeguandosi alla tendenza di un sistema produttivo più che in crisi, in rotta, e di un mercato del lavoro dove il 30,3% dei laureati ha una formazione eccessiva rispetto al lavoro che svolge. L’Italia resta al penultimo posto in Europa per numero di laureati. A questi giovani non riconosce alcun diritto alla casa e, nel frattempo, ha decurtato l’80 per cento dei fondi destinati alle politiche sociali.


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