L’asilo svizzero a misura di bambino

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 Nel 1945, a guerra appena finita, e aveva allora 33 anni, il sindacato la incaricò di una missione ancora più impegnativa: edificare a Rimini, che fu, anche se pochi oggi se ne ricordano, una delle città  più bombardate d’Europa, una scuola con legname spedito direttamente dalla Svizzera e con pietre del posto, in accordo con gli operai e gli antifascisti riminesi. Nacque così il Ceis, il Centro educativo italo-svizzero: un villaggio studiato a misura di bambino, che con le sue attività  – asilo d’infanzia, scuola elementare, scuola di recupero per bambini e adolescenti problematici – divenne nei suoi primi anni di vita uno dei centri propulsori della nuova pedagogia italiana.

Vi confluirono per imparare e per insegnare grandi studiosi e pedagogisti: da Jean Piaget a Célestin Freinet, da Bogdan Suchodolski a Lamberto Borghi, da Ernesto Codignola a Aldo Capitini, da Grazia Fresco a Angela Zucconi, da Francesco De Bartolomeis a Giuseppe Tamagnini (che fondò il Movimento di cooperazione educativa. Mce, che mobilitò centinaia di maestri elementari attorno alle pratiche e alle idee della scuola attiva a due passi da Rimini, a Fano), nonché architetti come Quaroni e De Carlo, fotografi come Werner Bischof e soprattutto insegnanti e monitori di colonie di vacanze che appresero lì i modi giusti di insegnare e, soprattutto, di stare con i bambini, di rispettare i bambini.
Tra i giovani che ebbero modo di partecipare a quella splendida esperienza, ricordo Fabrizia Ramondino, che animò a Napoli il lavoro con i bambini de’Arn, Associazione rinascita Napoli, e tra gli ultimi me stesso, testimone di una stagione irripetibile della pedagogia italiana, quando educazione voleva dire conquista della democrazia, crescita di uomini nuovi e responsabili nei confronti della comunità , della collettività , del creato.
Oggi l'”asilo svizzero” continua il suo lavoro – non ha mai cessato di farlo – anche se la sua fondatrice è morta da tempo, nel 1996. Le grandi figure di una storia minoritaria – e cioè in Italia, non quella dominante dei comunisti e dei cattolici, stimolatrice e provocatrice di idee vive nei confronti delle loro dottrine – cominciano finalmente a venir studiate anche in Italia e soprattutto a esser conosciute da nuovi operatori e nuovi educatori.
Nel disagio della scuola pubblica, nella perdita di sostanza della pedagogia corrente (in particolare di quella di sinistra che ha dominato negli ultimi quarant’anni nel segno dell’ideologia dello sviluppo invece che della comunità ) tornare a questi esempi è fondamentale, è una boccata d’aria pura nei miasmi di un presente fatto di compromessi di opportunismi di cedimenti, quando i nostri figli non vengono più educati dai loro genitori o dalla scuola bensì dal mercato, dalla pubblicità , da “agenzie” extrascolastiche e manipolatorie di corruzione e asservimento delle coscienze.
Proprio per questo è indispensabile mettere in conto la diversità  dei tempi, e i loro diversi compiti. Così com’era accaduto dopo la prima guerra mondiale, quando per esempio un reduce come Freinet sperimentò e fondò la sua scuola, dentro la scuola pubblica, sulla base di una convinzione di futuro dettata dalla fiducia nella ricostruzione, accadde con le esperienze di Margherita Zoebeli, della Scuola-città  di Firenze, del Mce e dei Cemea (e più tardi della scuola di Barbiana, con criteri più rigidi).
Ma oggi? E negli anni bui della guerra, delle guerre? Credo esistano doveri, e cioè un modo diverso di ragionare e di agire, nel campo dell’educazione, a seconda dell’epoca in cui si agisce. C’è stata e si spera possa esserci ancora una pedagogia del tempo di pace (Freinet, Zoebeli, Zucconi eccetera, ricordando la convinzione della Montessori che pace e democrazia non sono innate e le si conquista, che vanno insegnate…), c’è stata e c’è ancora, per fortuna non in Italia, una pedagogia del tempo di guerra (l’esempio più tragico e più lucido di tutti rimane quello di Korczack, che nel ghetto di Varsavia preparò i suoi bambini alla morte, ed entrò nella camera a gas insieme a loro), e infine una pedagogia del tempo di crisi, quando la fiducia nel futuro scarseggia, e i nemici dell’educazione e della libertà  delle coscienze sono infiniti – raggruppabili, se vogliamo, nella parola “mercato”. E’ di una pedagogia del tempo di crisi che oggi gli educatori italiani hanno bisogno, fuori e dentro la scuola, ed è di questo che dovrebbero discutere.


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