Le 13 idee che possono salvare il capitalismo

by Editore | 22 Giugno 2011 6:55

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E inoltre: “Cosa si può cambiare per renderlo meno distruttivo, più centrato sui reali bisogni dell’umanità , per orientarlo a rendere le nostre vite migliori?” Le risposte potevano sbizzarrirsi ai confini dell’Utopia. Invece si sono mobilitati protagonisti dell’economia, esperti di rango, con un elenco di proposte concrete, 13 grandi idee, progetti per cambiare da subito. Il successo dell’iniziativa rivela una voglia di riforme ben più diffusa di quanto appaia dal dibattito politico tradizionale. «Tutti hanno in comune una caratteristica – commenta il caporedattore di The Nation, William Greider – è gente allenata a pensare nel lungo termine, con esperienze concrete dal business alla finanza, attivisti e ottimisti, capaci di sfoggiare un’inventiva sorprendente». È la prova che l’America «è ancora viva e vitale, ricca di pensiero giovane, propensa a lanciarsi verso grandi cambiamenti». Alcune di queste proposte innovative si stanno già  facendo strada da sole, dentro la società  civile, con un’esplosione di iniziative dal basso. Poche di queste idee circolano nei partiti, ancora prigionieri di schemi arcaici: la destra vuole “lo Stato minimo”, i democratici o sono sulla difensiva o si limitano a invocare “più Stato”. Mentre dalle 13 idee per cambiare il capitalismo emerge una certezza comune: c’è bisogno “di uno Stato più forte, non più grosso”, una distinzione importante visto che l’Occidente intero dovrà  affrontare per diverse generazioni un risanamento delle finanze pubbliche. Gli esperti che hanno aderito all’iniziativa di The Nation non chiudono gli occhi di fronte a una delle contraddizioni della sinistra: «Non basta invocare più regole, visto che il fallimento delle regole è stata una delle cause dell’ultimo spaventoso tracollo del capitalismo». E proprio dalla colonna portante del capitalismo, cioè l’impresa, partono alcune delle idee d’avanguardia raccolte su The Nation. “Benefit Corporation”, traduzione Impresa Benefica: è una società  per azioni il cui statuto sociale e ragion d’essere sia diversa dal profitto. Non è un sogno, è un cambiamento delle normative già  in atto in California, New Jersey, Maryland, Virginia e Vermont, tutti Stati che hanno modificato il codice civile per consentire la diffusione di aziende che costruiscono «un’economia di mercato ma non una società  di mercato». Jamie Raskin, giurista costituzionale e senatore del Maryland, elenca diverse Benefit Corporations che hanno come finalità  obbligatoria «un impatto positivo sulla società  e l’ambiente: alcune si occupano del risanamento di fiumi, altre operano nell’edilizia popolare, altre ancora combattono l’analfabetismo di ritorno». È un movimento reale, il B Lab di Philadelphia ha già  censito oltre 400 Benefit Corporations. E a differenza dello statuto generico di cooperative, il marchio delle Benefit Corporations si può perdere: «Se l’azienda non tratta i propri dipendenti, la comunità  locale e l’ambiente con lo stesso rispetto che ha per gli azionisti». William Lerach, noto avvocato che ha vinto battaglie storiche in difesa dei consumatori e dei piccoli azionisti (ottenne 7,2 miliardi di rimborsi per i soci di minoranza Enron) spiega come introdurre «un poliziotto in ogni consiglio d’amministrazione, imponendo alle S. p. a. un amministratore indipendente che per legge protegga gli interessi dei dipendenti e del pubblico», aggirando le costruzioni barocche e inutili della corporate governance. Kent Greenfield, giurista del Boston College, spiega perché va abolita la “responsabilità  limitata”: nata per favorire gli investimenti imprenditoriali (isolando il capitale d’impresa dalle proprietà  dei singoli azionisti) è diventata la causa di una dilagante irresponsabilità  capitalistica. “L’imprenditore che rischia in proprio, che perde se sbaglia”: questa figura d’altri tempi, così lontana dall’impunità  recente invalsa ai vertici del capitalismo, torna in auge grazie agli Employee Stock Ownership Plan (Esop): 11.000 aziende sono state comprate dai loro stessi dipendenti, in tutto 12 milioni di lavoratori. Il giurista Vincent Panvini estende la lezione a tutte le imprese: «Contro la figura del chief executive de-responsabilizzato, che si arricchisce coi paracadute d’oro anche quando rovina l’impresa, tutte le regole retributive del top management devono essere tassativamente allineate alla salute dell’azienda». Joe Costello prevede gli enormi vantaggi per la collettività  dall’estensione sistematica dei principi “dell’open information”, riducendo l’appropriazione privata delle scoperte e della proprietà  intellettuale da parte delle multinazionali. Sarah Anderson dell’Institute for Policy Studies rilancia la tassa sulle transazioni finanziarie con un progetto concreto per risolvere i dissensi tra Europa e Stati Uniti. Robert Weissman che dirige il movimento Public Citizen prende ispirazione dal salvataggio statale di General Motors e Chrysler, e spiega tutte le leve d’influenza che il governo può mobilitare per orientare gli investimenti privati: a vantaggio delle energie rinnovabili, per la tutela della salute, la ricerca scientifica. Barbara Dudley racconta come sta prendendo piede nell’Oregon una nuova forma di microcredito, che aggira il potere delle grandi banche e garantisce finanziamenti a chi ne ha più bisogno: studenti universitari, piccole imprese, cooperative. Joseph Blasi, Richard Freeman e Douglas Kruse sono tra i più autorevoli esperti di relazioni industriali a Harvard e Rutgers: insieme firmano la proposta che rivoluzionerebbe gli incentivi fiscali per le imprese, limitandoli a quelle che riservano all’80% della manodopera (la parte bassa della piramide gerarchica) le stesse risorse che servono a pagare il 5% del top management. Una ricetta semplice per invertire la tendenza all’ipertorfìa dei superstipendi e al patologico aumento delle diseguaglianze. Tra gli imprenditori spicca Leslie Christian, chief executive di Portfolio 21 Investment: «L’attivismo dei risparmiatori può scavalcare i ritardi dei governi nel promuovere uno sviluppo sostenibile per l’ambiente. Aumentano i fondi che escludono sistematicamente dai loro portafogli d’investimento le energie fossili e vanno in cerca di opportunità  di lungo termine solo in aziende che hanno una strategia di riduzione nei consumi di risorse naturali». Ray Carey, che è stato chief executive di Adt, affronta il problema che assilla l’esercito delle “pantere grigie”, la generazione del baby-boom che comincia adesso ad andare in pensione senza garanzie sui propri redditi futuri: «Un sistema di retribuzione degli amministratori dei fondi pensione, che vincoli i loro stipendi ai risultati di lungo termine». Le 13 idee sono riforme a costo zero, non richiedono nuove risorse pubbliche, spesso anzi le fanno risparmiare (come lo sfoltimento dei privilegi fiscali per la rendita finanziaria). Ignorarle significa rassegnarsi a «un’economia patologica, una finta ripresa, con salari declinanti, debito pubblico e debito estero in aumento, il ceto medio che s’impoverisce». In comune, gli autori che hanno raccolto la sfida da The Nation hanno la caratteristica di pensare “out of the box”, fuori dalle consuetudini, ribellandosi alla pigrizia mentale. Sono a tutti gli effetti degli imprenditori sociali, pionieri dell’innovazione nella migliore tradizione americana. Il più grosso sforzo che si richiede per reinventare il capitalismo, è “immaginazione morale e spirituale”. Questo serbatoio mostra di essere ancora abbondante in America, non aspetta che arrivi il nulla osta dall’alto per mobilitarsi e sperimentare.

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