L’esercito riprende la città  ribelle

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DAMASCO – L’esercito siriano ha preso ieri il controllo della città  di Jisr al-Shughour, assediata findalle prime ore di venerdì da 15,000 truppe speciali dell’esercito sostenute da 40 carri armati ed elicotteri. Una settimana fa nella città  nord-occidentale 120 poliziotti erano stati uccisi da «bande di terroristi», secondo il governo – secondo attivisti e residenti erano stati colpiti dalle forze di sicurezza perché si erano rifiutati di sparare sui civili. Ora l’esercito riprende il controllo.
Testimonianze di residenti affermano che l’esercito ha bombardato la cittadina con artiglieria pesante, causando decine di feriti, e che si è scontrato con truppe ammutinate. I media ufficiali sostengono invece che numerosi «terroristi» sono stati arrestati e due uccisi. Domenica la Tv siriana aveva mostrato una fossa comune con i corpi di 12 militari, alcuni dei quali mutilati, e mandato in onda la confessione di un presunto terrorista.
Il numero dei siriani fuggiti in Turchia per sfuggire all’avanzata dell’esercito continua a salire: quasi 7,000 sono già  in campi profughi oltre il confine, altri accampamenti sono in preparazione per i 10,000 accampati dall’altra parte del confine. I rifugiati siriani, tra cui alcuni soldati che hanno disertato, raccontano di scontri nell’esercito in testimonianze riprese dalle agenzie di stampa internazionali: «Le truppe sono divise» racconta Abdullah, 35 anni: «4 unità  si sono ammutinate e hanno iniziato a spararsi nel mezzo delle operazioni militari».
Attivisti denunciano che la polizia ha sparato sabato sui civili dagli elicotteri a Maraat al-Numan, a sud di Idlib, assediata da mezzi militari, provocando 23 vittime, e operazioni militari sono in corso in altri 2 villaggi della provincia. «Le operazioni militari dell’esercito si concentrano nella provincia di Idleb, vicino ad Aleppo, seconda città  del paese, perché il regime vuole assolutamente evitare uno scenario libico, con ribelli che controllano una parte di territorio, come a Bengazi» scrive Joshua Landis sul blog Syria comment.
«La situazione è escalata in modo preoccupante nell’ultima settimana» afferma il premier turco Recep Tayyp Erdogan, un tempo alleato di Assad, appoggiando la risoluzione Onu di condanna promossa da Francia e Gran Bretagna, a cui si oppongono invece Russia e Cina. La Casa Bianca ieri ha condannato «in termini forti» gli ultimi eventi. Gli oppositori siriani chiedono una chiara e ferma condanna della comunità  internazionale ma si dichiarano contrari a un intervento armato. Il quotidiano filo-regime Al-Watan ha annunciato che entro la settimana si aprirà  la conferenza per il «dialogo nazionale» promossa dal governo con l’opposizione, che chiede prima però la fine delle violenze, la liberazione dei prigionieri politici e la libertà  d’opinione. Il Coordinamento dei comitati locali delle proteste (www.lcc.org) ha presentato una proposta per una soluzione politica, chiedendo le dimissioni di Bashar Al-Assad e una transizione verso un sistema democratico.
Ma l’accelerazione degli eventi nell’ultima settimana allarma molti siriani: a molti sembra realistica l’ipotesi che scoppi una guerra civile tra sostenitori del regime e oppositori, campi che in parte potrebbero coincidere con linee settarie -alawiti e altre minoranze religiose i primi, sunniti i secondi. Nel centro di Damasco si tengono da giorni raduni filo-Assad. Gli oppositori accusano il regime di fomentare scontri settari (fitna) per rimanere al potere e hanno spesso urlato nei cortei lo slogan «il popolo siriano è uno».
«Il regime ha armato la minoranza alawita», dichiara un abitante di Jisr Al-Shougur. «Noto un crescente risentimento della maggioranza sunnita verso gli alawiti, accusati per i privilegi dei clan al potere, e temo vendette» afferma Ibrahim, studente alawuita di Masayaf che pure «odia il regime». Alla domanda se alcuni manifestanti siano armati, si raccolgono risposte contrastanti, impossibili da verificare. «Sono sicuro di sì, oltre ai militari (spesso alawiti, ndr), due del mio villaggio sono stati uccisi» afferma Ibrahim. «Le armi ci sono» afferma Mujed, un oppositore, «ma le proteste sono pacifiche, questa è la loro forza, nonostante le 1,200 vittime della polizia. In tre mesi abbiamo ottenuto più riforme che in 50 anni: finalmente il regime ha ammesso l’esistenza di un’opposizione».


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