Lezioni americane sulle vere lobby

by Editore | 27 Giugno 2011 6:28

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Chi oggi in Italia tenta disperatamente di minimizzare “l’affaire” della P4 sostiene che in fondo si tratta di semplici cordate di potere, centri di raccomandazioni e lobbismo come ne esistono da sempre e in varie forme nel mondo intero. Deprecabili, forse, ma diffusi sotto ogni latitudine? Non è così. L’America per certi versi è il regno delle lobby, ma questo non significa che la lobby possa “farsi Stato”, mischiarsi fino alla confusione dei ruoli, sostituirsi alle sedi istituzionali delle decisioni. Un clan di potere che si prende la gestione di fatto di intere sfere dell’attività  di governo, precostituendone gli esiti? Impensabile in America, dove questo sarebbe considerato un inquinamento fatale della democrazia.
Perfino la toponomastica della capitale federale esprime la separazione tra due sfere. K Street è nota come l’indirizzo di gran parte delle lobby americane, associazioni di categoria, think tank con precise inclinazioni ideologiche, gruppi di pressione. Pennsylvania Avenue è la grande arteria su cui si affacciano la Casa Bianca, Capitol Hill e quindi le sedi del Congresso e della Corte Suprema. Questi attori della vita politica americana si frequentano – a volte anche troppo – e s’influenzano, duellano o duettano. C’è perfino un’osmosi nel personale, con ex parlamentari che una volta conclusa la loro carriera politica vengono assunti da lobby importanti (e per controllare questo fenomeno le regole sono state rese più severe da Barack Obama) ma comunque a tutti è chiaro chi fa che cosa, ognuno al suo posto. Anche la separatezza geografica, i nomi delle due strade che diventano simboli, l’una delle istituzioni di governo e l’altra delle lobby, sta a ricordare come funziona una democrazia solida. Bisignani non è collocabile a K Street o Pennsylvania Avenue, ma in un torbido territorio di mezzo, una terra di nessuno che centralizza e usurpa i due ruoli.
Gli Stati Uniti hanno inventato le lobby: questa parola entra nel loro gergo politico nel 1820 ai tempi del presidente Ulysses Grant. Alcuni storici identificano il termine con i grandi saloni d’anticamera del Congresso dove gli sponsor di particolari leggi, i difensori di questo o quell’interesse, aspettavano i parlamentari. Altri individuano l’origine nel grande salone (lobby) dell’hotel Willard dove Grant andava a bere brandy e fumare sigari, seguito da un variopinto mondo di questuanti. Il Primo emendamento della Costituzione, lo stesso che difende con una forza unica al mondo la libertà  di stampa e di espressione, riconosce anche la legittimità  degli interessi privati e il loro diritto a parlare, a spiegare i loro obiettivi ai politici. Oggi si tende a pronunciare il nome lobby in senso spregiativo, associandolo a poteri forti del capitalismo (i petrolieri, le assicurazioni, ecc.) ma alcune lobby storiche nacquero dal basso, con un’agenda progressista, sostenute da movimenti di massa: un esempio illustre è la National Association for the Advancement of Colored People che negli anni Cinquanta fu protagonista delle grandi battaglie per i diritti civili dei neri e la messa al bando della segregazione. Gli Stati Uniti ridiscutono continuamente la regolamentazione delle lobby per evitare abusi: il principio fondamentale è la trasparenza, il fatto che la loro attività  deve svolgersi alla luce del sole. Hanno l’obbligo di dichiararsi, e di sottoporsi a controlli in cambio dei quali possono (in certi casi) prendere la forma di ong non-profit e raccogliere per le loro cause dei contributi detraibili dalle imposte. Abbiamo visto le lobby capitalistiche impegnate di recente in forti azioni di contrasto, nei confronti dell’agenda riformista di Obama: il capitalismo della sanità  privata si è mobilitato per ostacolare la sua riforma sanitaria, le industrie dell’energia fossile hanno dato battaglia contro le leggi ambientali, Wall Street ha tentato di fermare le nuove regole sulla finanza. Tutto ciò è avvenuto sotto forma di uno spettacolo pubblico, con gli interessi di parte che firmano le loro campagne per nome e cognome. Questo rende possibile organizzare i contropoteri, bilanciare quelle lobby con altre di segno opposto: dalla società  civile sono nate grandi organizzazioni progressiste come Move.On, un movimento di sinistra con un milione d’iscritti e una poderosa capacità  di raccolta fondi; o la lobby ambientalista del Sierra Club. Chi ritiene di dover contrastare l’azione dei banchieri di Wall Street o delle assicurazioni sanitarie private, sa chi è l’avversario, la battaglia avviene in campo aperto fra concezioni opposte dell’economia, della politica, della vita sociale. Quello che è inconcepibile nella liberaldemocrazia americana, è una lobby annidata dentro il cuore della Casa Bianca, un potere parallelo a cui il presidente deleghi scelte fondamentali di sua competenza, un comitato occulto che precostituisca le nomine in posti-chiave. Non parliamo poi del ruolo che la P4 in Italia avrebbe esercitato dentro alcuni pezzi del Quarto Potere, cioè la stampa. La colonna portante della libertà  americana, protetta dal Primo emendamento, coltiva gelosamente la sua indipendenza. Dal Wall Street Journal neoliberista al New York Times “liberal”, le sensibilità  politiche sono ben diverse, ma nessun giornalista americano resterebbe al suo posto se si venisse a sapere che è stato sostenuto da un “comitato d’affari ombra”.

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