«Il proibizionismo è morto»

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Giugno 1971: Richard Nixon, dieci anni dopo la convenzione Onu che mise al bando alcune sostanze stupefacenti, rispolvera la carica moralizzatrice del proibizionismo dichiarando al mondo la sua war on drugs. Quarant’anni dopo al Palazzo di vetro di New York una commissione internazionale per le politiche sulla droga formata da personalità  del calibro di Kofi Annan, Javier Solana, Paul Volcker, o Mario Vargas Llosa presenta un rapporto dove dichiara il fallimento della guerra globale alle droghe che ha portato «devastanti conseguenze per gli individui e le società  nel mondo». E rompe il tabù, invitando i governi nazionali ad «assumere modelli di legalizzazione e di regolamentazione delle droghe», in particolare della cannabis e dell’ecstasy, «al fine di indebolire il potere delle organizzazioni criminali e salvaguardare la salute e la sicurezza dei loro cittadini». Una presa di posizione che si è guadagnata la prima pagina di quotidiani come il francese Liberation o il britannico The Independent. Ma che in Italia è stata salutata soltanto dal sottosegretario alla presidenza del consiglio Carlo Giovanardi che ha bollato il rapporto come «una baggianata». Si tratta, secondo il capo del Dipartimento delle politiche antidroga che ha sposato la visione gelminiana della «lotta alle droghe con la cristoterapia», di «nomi altisonanti per scrivere sciocchezze». Gli fa eco il capo dell’antidroga russo Viktor Ivanov: «È solo una campagna promozionale per le droghe», riporta l’agenzia Itar-Tass.
Non sono tutti scienziati, tossicologi o super esperti di tossicodipendenze, ma della Global commission on drug policy fanno parte statisti, intellettuali, economisti, magnati e premi Nobel. Il rapporto presentato all’Onu è stato firmato da diciannove personalità  dell’intellighenzia mondiale. Oltre all’ex presidente dell’Onu Annan, all’ex segretario generale della Nato e ministro degli esteri Ue Solana, all’ex capo della Federal Reserve Volcker e al premio Nobel per la letteratura Llosa, ci sono lo scrittore Carlos Fuentes, l’ex alto commissario delle Nu per i diritti umani Louise Arbour, l’imprenditore britannico Richard Branson, fondatore del colosso Virgin, l’ex segretario di Stato Usa George Shultz, il premier greco George Papandreou, l’ex presidente della Svizzera Ruth Dreifuss, l’ex presidente messicano Ernesto Zedillo, il colombiano Cesar Gaviria e il brasiliano Fernando Henrique Cardoso. Proprio da quest’ultimi tre presidenti sudamericani partì alcuni mesi fa, dopo la richiesta di Evo Morales di emendare i trattati Onu per legalizzare la foglia di coca, il primo appello a superare il proibizionismo e a riformare la battaglia contro le tossicodipendenze e le narcomafie. Che tiri un vento nuovo, dopo cinquant’anni di proibizionismo, lo si capisce anche dall’approccio più ragionevole mostrato dall’attuale direttore dell’Unodc, Yuri Fedorov, ben distante dalle posizioni da crociato berlusconiano del suo predecessore Antonio Maria Costa.
«Le droghe sono “sexy” quando sono illegali, se diventano medicinali non lo sono più», ha spiegato la signora Dreifuss. E in effetti secondo il rapporto della Global commission, lungo 24 pagine, i «tossicodipendenti vanno trattati come pazienti, non come criminali». «Arrestare e incarcerare nelle ultime decadi dieci milioni» di consumatori di droghe e piccoli spacciatori, ha solo «riempito le prigioni e distrutto vite e famiglie, senza ridurre la disponibilità  di droghe illecite o il potere delle narcomafie». I consumatori di sostanze, spiegano nel report, sono in continua crescita, almeno 250 milioni di persone nel mondo, secondo le stime Onu. Dal 1998 al 2008 l’uso di oppiacei è cresciuto del 34,5%, quello di cocaina del 27% e la cannabis dell’8,5%. In quarant’anni gli americani hanno speso circa mille miliardi di dollari in questa inutile guerra, a tutto vantaggio del crimine organizzato. «Le politiche sulle droghe – si legge nel rapporto – devono essere basate su solide empiriche evidenze scientifiche», secondo principi di «condivisione globale di responsabilità ».
Non un’utopia, ma una politica di decriminalizzazione che, come dimostrano paesi quali il Portogallo, la Svizzera, i Paesi bassi o l’Australia, ha ridotto notevolmente i danni alla salute e alla sicurezza pubblica. Nel rapporto vengono comparati i dati delle città  olandesi e di alcune statunitensi. Quel che non dice e che va sicuramente ricordato ai Giovanardi di casa nostra, è che le «stanze del buco», meglio chiamate safe rooms, in Spagna le ha introdotte Aznar, non Zapatero.


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