L’inferno dei ragazzi dell’Irar
“Bienvenidos al infierno“. Una frase scritta sul muro di una cella di 2 metri e mezzo per 2, a pennarello rosso. La cella è vuota. Ciccio, 17 anni, che l’ha abitata fino a poche ore fa, è stato rilasciato. Questa era la sua terza volta all’interno del Irar, l’Istituto di Recupero dell’Adolescente di Rosario, Argentina, e come lui stesso ammette, prima di uscire, è probabile che non sia l’ultima. Fuori lo aspetta la stessa situazione di violenza, corruzione e povertà di prima, ma ora conosce nuovi modi per delinquere, informazioni passate da ragazzino a ragazzino nei lunghi giorni e nelle infinite notti chiusi dietro le sbarre, senza vedere la luce del sole, nascosta dietro le alte mura dei patii.
Sono circa 50 i ragazzi detenuti ad oggi nel Irar, benché la struttura sia stata progettata per accogliere al massimo 30 ospiti: ragazzi dai 16 ai 18 anni, cresciuti troppo in fretta, senza un padre e una madre, o in famiglie numerosissime, in quartieri dove regna il degrado, la spazzatura, la delinquenza.
Come racconta Tato, 19 anni, da quasi 3 rinchiuso per omicidio, sposato e con una bimba di 1 anno, “non è facile crescere in un quartiere dove giri l’angolo e uno ti mette un arma in mano, ti vende droga, ti fa lavorare per lui”.
Furto, spaccio e stupro i reati più comuni per questi ragazzini. Nessuno di loro ha finito la scuola secondaria, alcuni faticano a scrivere il loro nome.
All’interno del carcere, la loro vita, se possibile, cambia in peggio: ogni settore è definito con una lettera dell’alfabeto, e i ragazzi sono divisi in base al quartiere di provenienza, in modo tale che sia meno probabile che si ammazzino tra loro, in quanto spesso già si conoscono o condividono la stessa fede calcistica.
Ma questa accortezza serve a poco: quelle pareti grigie, spoglie, piene di scritte a pennarello in linguaggio “tumbero”, ossia del carcere, le sbarre, i colpi e le minacce ricevuti dalle guardie, l’umiliazione di dover uscire ammanettati 2 a 2 anche solo per fare una telefonata, l’insopportabile odore delle fognature porterebbero alla pazzia il più savio degli uomini. E per quanto cresciuti in fretta, loro sono solo ragazzini. Alcuni di loro si procurano tagli sulle braccia, altri sbattono la testa contro il muro, gridano, cercano attenzione e cercano di farsi del male per essere portati all’ospedale. Se riescono ad essere operati, vengono rilasciati. C’è chi ha ingoiato una lametta da barba, chi ha tentato di impiccarsi con le lenzuola.
La disperazione uccide, perché nell’Irar sai quando entri, ma mai quando esci: secondo la legge argentina, i minori non sono processabili, e sta al giudice decidere quando possono essere rilasciati. I ragazzi, o meglio i pibes, non sanno quanto sarà lunga la loro pena, possono solo sperare: “La mia mamma mi ha detto che forse mi fanno uscire per il mio compleanno, che è il 13 maggio, se no entro la fine del mese”, dice Jony, 16 anni, a fine aprile. Il 29 maggio lo saluto, ancora chiuso tra le 4 mura, mentre dallo stereo escono le note della cumbia, la musica prediletta dai chicos.
Le visite dall’esterno non sono frequenti: la polizia, seduta nella guardiola a bere mate, tipica bevanda argentina, lascia le madri o le mogli attendere davanti al cancello per ore. Spesso le donne si nascondono addosso degli stupefacenti, per alleviare le ore infinite dei ragazzi; ma la droga viene venduta anche dai poliziotti stessi.
Storditi, a volte i ragazzi non hanno voglia di prendere parte ai laboratori di teatro, scrittura o arte plastica organizzati da volontari esterni al carcere.
Se ne stanno lì, con gli occhi semichiusi, sognando di camminare liberi per la strada, sognando una ragazza, una casa, una macchina per andare a vedere il mare.
“Los pibes no son peligrosos, son en peligro“, si legge sui muri delle strade di Rosario. Gli accompagnanti giovanili, civili che lavorano all’interno del carcere per controllare e controbilanciare la presenza della polizia, che in un istituto di recupero giovanile non dovrebbe esistere, manifestano e denunciano il trattamento dei minori all’interno della struttura. Chiedono da anni la realizzazione di un nuovo edificio, che sia realmente un centro di recupero, che sia privo della presenza della polizia penitenziaria, come sancisce la Convenzione Internazionale sui diritti dell’Infanzia.
E mentre nel “encierro” il tempo passa lento, Lucas, 17 anni, ottiene la libertà , promettendo di trovarsi un lavoro, e di non far più soffrire la sua famiglia, perché finalmente ha capito di aver sbagliato. Di ore per pensare, chiuso nella sua cella, ne ha avute tante, mi dice. E per un ragazzo che esce, un altro entra nel girone: i pibes del Irar forse non saranno angeli, ma non per questo meritano l’inferno.
foto Andrea Battan
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