Non solo colf, 100 mila straniere con l’azienda

by Editore | 13 Giugno 2011 7:32

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«La donna immigrata appare ormai come interprete principale di un lento e silenzioso sviluppo all’interno della società » , commenta soddisfatta Patrizia Di Dio, presidente di Terziario donna della Confcommercio. Nella ricerca sono andati ad indagare anche le nazionalità  delle imprenditrici. In testa, c’era da supporlo, le donne cinesi: rappresentano il 15,8 per cento del totale e si occupano di ristorazione e commercio. Seguono poi dalle romene (7,6 per cento), le svizzere (7,3 per cento), le marocchine (6,7 per cento) e le tedesche. Mounira Angoudi non è in queste percentuali, lei è tunisina. Ma la sua storia è una favola bella, emblematica di questa integrazione moderna. Oggi è titolare di un centro estetico nel cuore della Roma antica, a ridosso di piazza Navona. Mounira dalle clienti si fa chiamare Monica, per semplicità . E si diverte così tanto a lavorare che ha deciso di non metter su famiglia, per questo. Certo non lo avrebbe immaginato ventiquattro anni fa quando è sbarcata in Italia con l’idea di fare un bel lavoro in un albergo e si è ritrovata una paga in nero e uno sfruttamento non degno di un paese civile. «Ma non mi sono persa d’animo» , racconta oggi a 46 anni, fiera della sua professione. Spiega: «Ho trovato la forza di abbandonare l’albergo e ho trovato lavoro presso una coppia di anziani che sono stati per me dei genitori» . Lavorando come badante, Mounira si è iscritta ad un corso di estetista, ma ha anche avanzato una vertenza contro l’albergo che l’aveva sfruttata. L’ha vinta, dopo tanti anni. «E sono contenta soprattutto per le altre ragazze che come me venivano sfruttate ma che non avevano trovato il coraggio di fare quello che ho fatto io» . Dal corso di estetista ad un lavoro come dipendente, per imparare l’arte e non certo metterla da parte, bensì rilanciarla giorno dopo giorno. Oggi a ridosso di piazza Navona il negozio di Monica-Mounira non ha un nome, si chiama semplicemente: Centro estetico, perché le sue clienti non hanno bisogno di altro. Mounira non nasconde che il suo percorso sia stato difficile. Racconta. «Devo dire che quando sono arrivata in Italia non ho vissuto episodi di razzismo o di emarginazione. Il razzismo è arrivato invece quando ho cominciato a mettermi in proprio» . È questo il passo complicato del meccanismo di integrazione: il salto di qualità . Lo hanno fatto in centomila donne, fino ad oggi. E sono tutte donne giovani, in media più giovani delle italiane: circa l’ 80 per cento, infatti, ha meno di 50 anni, contro circa il 60 per cento delle italiane. Il 13,1 per cento ha addirittura meno di 29 anni. L’area più multietnica è il Centro dell’Italia (con il 9,3 per cento di imprese femminili guidate da straniere), Teramo e Trieste le città  che hanno il rapporto più alto sul totale delle imprenditrici del terziario (rispettivamente 13,8 e 13,7 per cento). Milano e Roma sono invece tra le prime dieci dove lavorano donne imprenditrici straniere. Per la precisione, Milano è al quarto posto con il 13 per cento e Roma e al settimo con l’ 11,8 per cento. «Sono certa che l’integrazione di queste donne imprenditrici agevolerà  il processo di edificazione e consolidamento di una società  realmente multietnica» , sostiene ancora Patrizia di Dio. E aggiunge: «Il mercato è uno dei pochi settori in cui, a differenza di altri, si possono affermare le pari opportunità . Il mercato, infatti, è meritocratico e premia le capacità  imprenditoriali al di là  del sesso, dell’etnia, della religione» .

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