Profughi in Turchia, in fuga da Assad

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YAYLADAGI (TURCHIA) – Le donne siedono angosciate affianco ai loro fagotti. Tengono la testa bassa, si tormentano le mani, si mordono le labbra. I loro mariti si guardano intorno disorientati. Il futuro è oscuro come una voragine. Devono capire cosa faranno, che fine faranno, ora che sono entrati nel campo profughi. I loro bambini, tanti, tantissimi, intanto giocano, si rincorrono e appena notano qualcuno che li osserva oltre le grate di ferro che circondano le tendopoli, scandiscono cori contro «il tiranno» che li ha costretti ad abbandonare le loro case: «Bashar Assad, vattene, vattene». 

Negli ultimi tre giorni sono stati più di 1500 i fuoriusciti siriani scappati in Turchia e approdati nella regione di Hatay, all’estremo sud ovest del Paese. Sono iniziati a fuggire nella notte di mercoledì, hanno raggiunto gli altri 10mila connazionali che già  vivono oltre confine. Le stime ufficiali a tutt’oggi contano un totale di 11739 profughi. 
L’ultima ondata dei nuovi arrivati, è composta da tutte quelle famiglie che già  le loro vere case le avevano abbandonate, e che si erano trasferite, raccolto qualche vestito o poco più, nei campi profughi di fortuna a ridosso della frontiera ma ancora in territorio siriano. In tendopoli improvvisate fra i frutteti o confuse nella boscaglia. Giovedì mattina però i tank dell’esercito si sono spinti ancora più a nord, fino ad arrivare a un passo dal confine. La gente, terrorizzata, è scappata in massa e ha abbandonato anche gli accampamenti dove si era costruita un rifugio nel tentativo di sfollare dalla repressione che ha travolto il nord della Siria e che ha avuto, come epicentro delle violenze, la città  di Jis al Shugur. Sono quasi tutti agricoltori, di origine sunnita, gente che viveva nei piccoli villaggi. Per un terzo sono uomini, tutti padri di famiglia, il resto sono donne e bambini. Di giovani, tra i venti e i trent’anni, ce ne sono pochi. Chi è in forze è rimasto in Siria, a combattere, o è già  finito prigioniero. 
Il governo di Ankara e la Mezza Luna Rossa hanno precipitosamente allestito cinque campi profughi, disseminati nella regione di Hatay. Due nella piccola città  Yayladagi, all’estremo sud ovest del paese, e poi a Altinozu, Reyhanli, Boynuyogun, città  sperse nella campagna verde di fronde mediterranee e che qui arde per il sole bollente. Un sesto campo a Apajdin non è ancora operativo, ma è in fase di costruzione per i futuri arrivi che tutti, qui, prevedono. Solo nel campo di Reyhanli, la sera di giovedì ci sono stati altri quattrocento nuovi arrivi. Donne, bambini, padri di famiglia portati dai minibus turchi che hanno fatto la spola col confine siriano, per raccogliere i fuggitivi e accompagnarli sotto le tende della Mezza Luna Rossa.
La visita alle tendopoli è preclusa ai giornalisti stranieri. Non si può entrare. (Per scattare qualche foto, l’unica possibilità  è stata quella di affidare la macchina fotografica a un bambino affacciato alla grata del campo di Yayladagi). I legami familiari fra turchi e siriani che vivono in questa zona sono infiniti, e ai cancelli dei campi si susseguono gruppi di parenti in visita agli sfollati. Vengono a portare conforto, offrire cibo e beni di ogni sorta. In giornate come giovedì l’andirivieni dei pulmini è stato inesauribile. Dal campo non è possibile né spostarsi né uscire. Ai siriani – appena ne fanno richiesta – è solo concesso di fare ritorno in patria. Ma nonostante la propaganda di Bashar Assad, che da giorni bombarda le tv di stato con messaggi tranquillizzanti di pace e di perdono per i fuoriusciti, solo in 63 hanno deciso di tornare sotto il governo di Damasco. 
Nessuno si fida di Bashar Assad. Il suo fratello minore, Maher, a capo dell’esercito, sta torchiando le regioni siriane del nord e ha messo in fuga anche gli innocui contadini che le popolano. Nazir, 22 anni, è un attivista che negli ultimi dieci giorni era scappato, insieme ai vecchi e ai bambini, in una tendopoli issata fra le frasche di un frutteto, a un passo dal confine con la Turchia. La famiglia di Nazir ora si trova nel campo profughi di Yayladagi. Qui, per giorni, ha aiutato la gente terrorizzata dal racconto delle violenze. Nottetempo si spostava oltre confine, nel paese turco di Gà¼veà§à§i, per prende cibo o altro, e portarlo ai suoi connazionali. «Vivevamo lì ormai da 10 giorni. Poi dei miei amici mi hanno telefonato. Ci hanno detto che stava arrivando l’esercito. Era sera, è stato come uno tsunami. Siamo fuggiti tutti». Suo fratello, spiega, è uno studente di economia ed è stato arrestato durante una manifestazione a Jis al Shugur. Da più di dieci giorni non ha più sue notizie. Ora Nazir vive a Gà¼veà§à§i, ospite semiclandestino di una fattoria che è diventata un centro di incontro e coordinamento degli attivisti siriani costretti a fuggire in questa regione della Turchia, «da qui continuo ad aiutare la mia gente», spiega. La famiglia che lo ospita è turco-siriana, e fra le pareti in cemento nudo della loro casa questi giorni stanno passando i giornalisti di tutto il mondo. Dai tetti di Gà¼veà§à§i si vede a occhio nudo la tendopoli dove Nazir e la sua gente erano sfollati fino a qualche giorno prima. Oltre il sottile filo di ferro si contano una cinquantina di tende azzurre, ora tutte semi deserte. Dentro sono rimasti solo alcuni anziani che alla violenza del regime di Assad non vogliono piegarsi e non vogliono saperne di lasciare la loro Siria. Appena dietro il profilo della collina, schierato in appostamento c’è l’esercito siriano con i suoi tank. La sua avanzata di giovedì, oltre a mettere in fuga i contadini, ha fatto impennare la tensione anche ad Ankara. Fin dalle prime ore del mattino sulle piccole stradine che lambiscono la frontiera, i militari si sono disposti a piantonare gli incroci, col binocolo puntato ad osservare gli spostamenti dell’esercito siriano. Sulle colline dirimpetto a Gà¼veà§à§i si stagliano due torrette di guardia siriane. «I militari saliti là  sopra questo giovedì, oggi sparano a qualsiasi cosa si muova. Appena fai un passo in Siria, oltre confine, ti ritrovi con un proiettile in testa», racconta Nazir.



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