“Milano espugnata? Chiedo scusa a Pisapia ma adesso basta con le risse a sinistra”

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BARI – Un caffè amarissimo con la lettura dei giornali, poi una telefonata all’«amico Giuliano» e una video lettera in cui Nichi Vendola si scusa col nuovo sindaco di Milano per aver usato il verbo «espugnare» nella festa di piazza del Duomo: «un linguaggio militaresco che non ci appartiene». «Ma non per aver parlato di fratelli rom. La fraternità , per me, non è un valore negoziabile».
Presidente Vendola, pensa di aver chiuso così la polemica con Pisapia?
«L’amicizia e la stima di una vita non s’incrinano per un verbo sbagliato nell’entusiasmo di una vittoria. Anche se c’è chi cerca sempre di giocare sporco. A parte questo, lo dico a tutti, nel centrosinistra non c’è, non ci deve essere il tempo ora per beghe personali».
Non sarà  che dopo l’inattesa vittoria è già  cominciato l’ennesimo regolamento di conti a sinistra?
«Saremmo dei folli. Significherebbe bruciare al volo l’apertura di credito di un pezzo d’Italia. Dobbiamo sforzarci tutti di non perdere l’umiltà  che ci ha portato a questo risultato. Dico al Pd: non abbiate paura. Il trionfo del Pd a Milano non c’è stato nonostante, ma grazie alle primarie e a Pisapia. E dico a me stesso che sarebbe infantile mettere il cappello su questa o quella vittoria. Al contrario, parto dalla inadeguatezza mia e del mio partito, davanti a un mutamento di queste proporzioni. Non c’è tempo, siamo tutti presi per i capelli dalla storia. Quindi, mettiamo da parte personalismi miseri e ridicoli, rendiamoci conto dei reciproci limiti per aiutarci a superarli e soprattutto da oggi, anzi da ieri, lavoriamo per i referendum».
Una vittoria dei “Sì” ai referendum sarebbe la vera fine del berlusconismo?
«Molto di più. I quattro quesiti referendari diventano un’occasione fondante per il nuovo centrosinistra. Si tratta non solo di mandare a casa Berlusconi, ma di illustrare con chiarezza finalmente qual è la visione alternativa della società  che proponiamo agli italiani. E vedere chi ci sta».
In che cosa sarà  diversa la campagna per i sindaci da questa per i referendum?
«Abbiamo vinto nelle città  perché parlavamo dei problemi concreti, mentre la destra metteva in campo la macchina del fango e dell’odio ideologico. Ora, se mettiamo in fila i quattro quesiti, ne esce il disegno della società  che vogliono loro e che vogliamo noi. Da una parte la destra che vuole privatizzare tutto, l’acqua, l’energia, il territorio, perfino la giustizia, con la più odiosa delle leggi ad personam. Dall’altra un centrosinistra che difende l’idea di bene comune e la proietta nell’economia del futuro. Sono temi non ideologici, che tornano a far coincidere la politica con la vita quotidiana. Esattamente ciò che ci chiede il Paese. Il resto è politicismo. Quanto è riformista? Quanto è radicale? Non lo so e non me ne frega niente».
Ma le comunali sono state in parte un altro referendum pro o contro Berlusconi. Con temi come l’acqua, l’energia, la giustizia, non cambia la prospettiva?
«E’ l’occasione per ribaltare i luoghi comuni di un berlusconismo spacciato ormai per senso comune. E’ accaduto nelle città  con la questione della sicurezza. Gli elettori, compresi alcuni di destra, hanno capito che la vera politica securitaria è l’integrazione, mentre l’opzione xenofoba non solo è pericolosa, ma fallimentare nella pratica. Sui temi come l’acqua pubblica e il nucleare possiamo incrociare una fetta ancora più larga e consapevole dei cittadini. Davanti a un mutamento epocale, che senso ha stare col bilancino a stabilire chi ha vinto di più, chi ha perso di meno?».
La conversione anti nucleare del centrosinistra è piuttosto recente, per la verità . Non si rischia un populismo di segno invertito, sull’onda emotiva di Fukushima?
«Fukushima è anzitutto un fatto che ha cambiato la percezione del nucleare nel mondo. Per decenni ci avevano raccontato che gli incidenti erano impossibili, Three Miles Island era un film di Hollywood e Chernobyl colpa del comunismo. Poi c’è stata Fukushima e una grande nazione come la Germania ha deciso di chiudere le centrali. Sarà  consentito anche a qualche esponente del Pd di cambiare idea? Per quanto mi riguarda, naturalmente, non ce n’era bisogno, visto che mi batto contro il nucleare e per l’acqua pubblica fin da ragazzino».
A un passo dalla meta, negli ultimi anni il centrosinistra si è sempre incartato, diviso in dieci tavoli di trattative, venti auto candidature e ipotesi di alleanze. Che cosa le suggerisce che non accadrà  anche adesso?
«La forza delle cose. Stiamo sulle cose, non parliamo di formule. Casini vuol venire con noi? Magnifico. Ma se il prezzo è rinunciare alle proposte sul precariato, a costo di farci sorpassare a sinistra da Ratzinger e Mario Draghi, allora no, grazie. Un fatto è certo, dopo i ballottaggi. La sindrome di Zelig della sinistra è finita, il riformismo come pratica del compromesso universale su tutto, perfino sulle ronde, è morto. Dai referendum in poi il gioco diventa: questo proponiamo noi, questo vogliono loro e i cittadini scelgano».


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