Camorra a stelle e striscie

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È una rivoluzione. Per la prima volta, il governo americano inserisce la camorra tra i principali problemi dell’economia statunitense definendola «una delle quattro organizzazioni criminali più pericolose per l’interesse nazionale degli Stati Uniti» insieme ai Los Zetas messicani, alla mafia russa del “Circolo dei fratelli” e alla Yakuza giapponese. Non solo quindi un problema criminale, esterno e lontano, una piaga da contrastare semmai per spirito etico. No, la camorra, la neapolitan mafia come è stata sempre chiamata oltreoceano, è ora tra i principali problemi dell’economia degli Stati Uniti d’America.
Si parte da una mappatura dettagliata del fenomeno: nella lettera del presidente Obama che introduce questo documento, si legge che le reti criminali stanno espandendo le loro operazioni a livello transnazionale, stanno diversificando le loro attività , diventando più sofisticate e complesse. «Stanno creando alleanze con elementi corrotti dei governi e usano il potere e l’influenza di questi elementi per portare avanti le loro attività  criminali». Il governo americano ha sottolineato che la penetrazione della camorra nell’economia di uno stato e la sua pericolosità  sono direttamente proporzionali alla capacità  di alleanza con i governi stessi.
Del resto, l’opinione del governo Usa sulle mafie italiane divenne di dominio pubblico quando, a gennaio di quest’anno, uscirono i file di WikiLeaks sui dispacci dell’ex console statunitense a Napoli J. Patrick Truhn, risalenti a giugno del 2008. Truhn segnalava al suo governo le importazioni di prodotti alimentari rivenduti come italiani: mele moldave intossicate di pesticidi, sale marocchino infestato di Escherichia Coli.

Che due terzi dei panifici campani sono controllati dai clan e il pane è impastato con materiali tossici. Che la mozzarella casertana, in taluni casi, è prodotta con latte in polvere boliviano e che vengono intombati illegalmente in Campania rifiuti provenienti da ogni parte del Paese. Estendendo lo sguardo alla Calabria, il console parlava di un territorio «in mano agli estorsori e ai trafficanti di droga» con una popolazione «che manca di ottimismo e che vede i politici locali come inefficaci o corrotti». Molte aziende americane, scriveva il console, non vogliono investire al Sud per paura delle mafie. E concludeva affermando: «Alla fine, i costi della criminalità  organizzata graveranno, direttamente o indirettamente, su quasi ogni cittadino italiano […] Dobbiamo lavorare per convincere il nuovo governo italiano che il crimine organizzato è priorità  seria del governo americano e che gli assurdi costi economici del crimine organizzato sono un argomento convincente per un’azione immediata».
L’analisi, divisa in tre parti, fu inviata al segretario di Stato, alla Cia, all’Fbi, alla Dea e ad altri 18 organismi ufficiali americani nel giugno del 2008. A tutte queste rivelazioni, la classe politica italiana ha reagito dichiarando che i rapporti con gli Stati Uniti sono ottimi e che sta già  facendo tutto ciò che occorre per combattere le mafie. Allora si trattava di notizie pubblicate dall’organizzazione di Assange, alle quali era possibile dare risposte generiche ed evasive. Ora non più. Ora il confronto non riguarda uno scoop mediatico, ma la presa di posizione ufficiale del governo Usa sulla questione criminale in Italia. Ed è proprio per fronteggiare questa minaccia, che il governo americano ha stilato pochi giorni fa un nuovo piano d’azione che risponde al nome di Strategy to Combat Transnational Organized Crime, presentato alla Casa Bianca durante una conferenza stampa a cui hanno partecipato alte cariche dello Stato e dei servizi di sicurezza, tra cui il ministro della Giustizia Eric Holder, il ministro della Sicurezza Interna Janet Napolitano e il capo dell’antiterrorismo John Brennan.
Questo documento e soprattutto la consapevolezza che la camorra sia un’organizzazione criminale strutturata da studiare e arginare, non sono affatto scontati. Negli Stati Uniti la neapolitan mafia è stata considerata negli ultimi decenni marginale rispetto a Cosa Nostra siciliana e alla ‘ndrangheta calabrese. Vale poi la pena ricordare che, se gli Stati Uniti volessero scimmiottare l’ottimismo italiano nel campo della lotta alle mafie, leggendo il fenomeno in maniera miope come accade da noi, avrebbero tutte le ragioni per farlo, perché la mafia italo-americana è in crisi. La legge RICO (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act) contro il crimine organizzato – che estendeva l’accusa per reati commessi da un membro di un’associazione criminale a tutti i membri della stessa associazione anche se non erano stati parte attiva nel reato – ne ha letteralmente distrutto la struttura ossea. Negli anni ‘60 e ‘70 le organizzazioni italo-americane erano viste come sorelle maggiori delle strutture italiane e a New York la mafia aveva grande potere nel settore delle costruzioni e in quello dei rifiuti. Potere che ha gradualmente perso perché le nuove generazioni di mafiosi non hanno l’esperienza e la capacità  diplomatica dei loro padri. A dimostrazione di ciò, il boss Carmine “Lilo” Galante già  a metà  degli anni ‘70 si mise a reclutare nuove leve direttamente dalla Sicilia: più affidabili, senza scrupoli, non avvezzi alla vita comoda e alle stravaganze del Nuovo Mondo. Così quando le famiglie di New York hanno bisogno di uomini per portare a termine operazioni delicate, chiamano “personale fidato” dall’Italia.
Ciò che rimane oggi della vecchia mafia italo-americana è una sorta di clima da “mala” più estetico che di sostanza. Negli Usa li chiamano “Guidos”, ragazzi palestrati e abbronzati, che sfoggiano catene e anelli d’oro, gel nei capelli, viso nel piatto quando mangiano e parlano uno slang che risente di contaminazioni italiane. È una mafia da esibire: esiste persino il reality-show “Mob Wives”, che segue la vita quotidiana di quattro mogli di boss italo-americani, i cui padri o mariti sono tutti in carcere per reati di associazione mafiosa. Ma a New York le cinque famiglie mafiose – i Gambino, i Colombo, i Bonanno, i Lucchese e i Genovese, anche se ormai nessuno o quasi degli affiliati porta più questi nomi – pur se in crisi profonda, custodiscono ancora il know-how del crimine organizzato. Ed è la camorra, che ha saputo lavorare lontana dai riflettori e mettere radici senza dare nell’occhio, a dare nuova linfa ai cugini di Cosa Nostra. Dal più celebre gangster di tutti i tempi, Alfonso Capone, detto Al, campano, originario di Castellammare di Stabia, in provincia di Napoli, che sognava di tornarci per “comprarla tutta”, alle numerosissime inchieste degli ultimi anni, i rapporti tra camorra e Stati Uniti sono sempre più frequenti. Sono stati scoperti giri di contraffazione gestiti dalla Camorra che hanno raggiunto i punti vendita statunitensi: falsi trapani Bosch, macchine fotografiche simil-Canon, capi d’abbigliamento in pelle vengono importati dall’Oriente o prodotti direttamente a Napoli e provincia per poi essere venduti nei negozi spesso insieme alle merci originali.
Nel 2005 i magistrati della Dda di Napoli, con un’ordinanza fiume, dimostrarono che il monopolio in Europa, negli Stati Uniti e in Australia del commercio di prodotti con marchi falsificati era stato per anni nelle mani di una rete economico-criminale costituita tra gli altri da insospettabili imprenditori napoletani che facevano affari con le famiglie camorriste Licciardi e Contini. In manette finirono non solo affiliati ai clan, ma anche titolari di grosse aziende napoletane nel settore dell’abbigliamento. Paolo Ottaviano, arrestato nell’ottobre del 2008 e considerato il boss del clan Mazzarella, controllava per contro del clan il mercato della merce falsificata (tra cui, come dimostrano le inchieste, false scarpe di note griffe italiane). Secondo la testimonianza di alcuni collaboratori di giustizia viaggiava continuamente tra l’Italia e gli Stati Uniti per gestire gli affari dell’organizzazione. Nell’aprile 2011 da un’inchiesta delle Dia di Napoli e Padova è emerso che un’azienda padovana nel settore delle macchine per triturazione dei rifiuti era diventata leader del mercato in molte parti del mondo, tra cui New York, con sedi operative a due passi da Wall Street, grazie anche all’ingresso d’ingenti capitali provenienti dalla Resit di Cipriano Chianese, l’imprenditore casertano ritenuto il re dei rifiuti del clan dei Casalesi. Secondo l’inchiesta l’imprenditore padovano fungeva da prestanome per Chianese.
Che la neapolitan mafia stesse riguadagnando terreno se n’era accorto il cinema ancor prima che la politica. I Sopranos, la famiglia mafiosa più famosa della tv, nella finzione sono originari di Avellino e, pur essendo ormai americani a tutti gli effetti, mantengono ancora contatti con la “casa madre”. In una storica puntata i protagonisti dal New Jersey, dove vivono, si recano in viaggio d’affari a Napoli per accordarsi su un traffico di auto rubate. Ed è sempre a Napoli che Tony Soprano va a cercare dei sicari fidati per il più importante scontro criminale della sua carriera, proprio come aveva fatto Carmine “Lilo” Galante negli anni ‘70. A tutto questo fa da contraltare l’atteggiamento dei milioni di italo-americani che vivono negli Stati Uniti e che sentono il peso di essere considerati mafiosi solo per il fatto di avere origini italiane: pregiudizio che suona come una doppia offesa, perché riguarda un fenomeno che dilania il nostro Paese, che lo rovina e che ci rovina. Ma soprattutto perché, negli Stati Uniti come in Germania e in Spagna, è stata proprio la comunità  italiana sana il più forte ostacolo al dilagare delle mafie. E l’errore di una parte della comunità  italiana e italoamericana è di considerare l’argomento mafioso come dannoso per l’immagine del nostro Paese, quando l’unica risposta al pregiudizio è proprio mostrare come gli italiani abbiano insegnato al mondo a fare antimafia. È proteggere e tutelare la memoria e l’impegno di coloro che si sono opposti alle organizzazioni mafiose, è mostrare l’impegno e spesso il sacrificio nel contrasto, il talento nell’impresa pulita. Queste sono le uniche risposte possibili al pregiudizio, non vietare e criticare le fiction, processare i film, “strozzare” chi scrive libri.
A chi dice che parlare di criminalità  organizzata significa diffamare l’Italia rispondo che il nostro Paese possiede le competenze antimafia più antiche del mondo, quindi dobbiamo accogliere questo implicito invito del governo americano con estremo entusiasmo perché possiamo diventare un punto di riferimento positivo nel contrasto alle organizzazioni criminali, un prezioso alleato.
E come implicito è l’invito a collaborare, esplicita è la critica al governo italiano. Ma non giunge inattesa. Il nostro Paese è sotto osservazione da lungo tempo e ora si tirano le somme. Negli Stati Uniti la camorra è considerata un pericolo per la democrazia, quando in Italia, stranamente, se ne proclama la sconfitta. E il solo pronunciare la più lapalissiana delle verità , ossia che la parte maggiore degli investimenti mafiosi avvengono al Nord, ha generato un moto di stizza e rabbia nei partiti di Governo pronti a negare la naturalizzazione delle mafie nelle regioni in cui questi prendono voti.
Questa decisione americana è una scossa fortissima contro l’indifferenza sedimentata nell’opinione pubblica italiana che ha consentito l’impune nomina nel ruolo cruciale di viceministro all’economia di Nicola Cosentino, attualmente sotto processo con la gravissima accusa di concorso esterno in associazione camorristica. Da Napoli partono poi indagini che coinvolgono autorevoli esponenti del governo e della maggioranza, tra cui lo stesso presidente della provincia Luigi Cesaro. E a Napoli la magistratura indaga su un rapporto che lega camorra impresa ed elementi corrotti delle forze dell’ordine. Un modello che l’analisi del governo americano ha confermato.
Se il governo italiano continuerà  a seguire la linea delle minimizzazioni e delle rassicurazioni a buon mercato o, peggio ancora, cercherà  di ignorare l’allarme venuto degli Stati Uniti, darà  un’ulteriore segnale di debolezza e inaffidabilità  in un momento già  estremamente critico. Oltreoceano, invece, dopo questo passo, speriamo che i nuovi italiani di New York, le migliaia che per problemi di visto vivono clandestinamente nella metropoli americana (come racconta Maurizio Molinari nel bel libro Gli italiani di New York, edito da Laterza), possano contare su una maggiore accoglienza e capacità  di valutazione da parte dei newyorkesi, affinché siano visti non come leggendari parassiti, ma come anticorpi vitali nella comunità .


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