Dieci domande al premier così la sua intuizione ha fatto il giro del mondo

by Sergio Segio | 31 Luglio 2011 8:10

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ROMA – «Il dovere di un giornalista è di porre domande». Un precetto semplice. Netto. Che non può essere sottoposto a interpretazioni. Il direttore del Guardian, Alan Rusbridger, è stato crudo nel descrivere il pricipale obbligo che accompagna l’attività  professionale di un cronista. Una regola di anglosassone chiarezza. Che Giuseppe D’Avanzo ha osservato quando, nel 2009, ha formulato le sue «Dieci domande» al presidente del consiglio Berlusconi. Quegli interrogativi messi nero su bianco da Repubblica per far consocere all’opinione pubblica la vera natura del rapporto tra il Cavaliere e la giovane Noemi Letizia, non solo hanno costituito un precedente assoluto nel giornalismo italiano ma in una certa misura lo hanno condizionato. Imponendo un nuovo modo di rapportare la stampa con il «potere». ventisemi mesi fa era quello il cuore del dibattito politico e non solo. La festa della diciottenne Noemi dui aveva partecipato il premier era avvolta nella nebbia e nella opacità . Quelle «10 domande» servivano a diradare la nebbia.
Da allora il metodo delle domande pubbliche da porre sui quotidiani o sui periodici ha fatto scuola. Sono diventate una strada da percorrere per molti. Del resto, quella «doverosa intervista» a Berlusconi per mesi diventò il punto di riferimento, per raccontare il nostro Paese, di larga parte della stampa internazionale. Che ne colse il valore innovativo all’interno del sistema italiano dell’informazione. Il «caso Noemi», infatti, travalicò i confini nazionali. E, come mai era accaduto in passato, ebbe la forza di abbattere il muro del disinteresse. Basti pensare ad alcuni dei servizi a tutta pagina che in quella fase furono riservati alla «liasion» tra il premier e la ragazza di Casoria. E soprattutto alle «domande» che Repubblica aveva rivolto – senza risposta – al presidente del Consiglio. Proprio il New York Times parlò di «decadenza imperiale» costruendo un parallelo diretto con il Satyricon di Fellini. Dopo quella vicenda l’americano Time coniò il termine «Berlusconistan». L’inglese Guardian senza mezzi termini avvertì che «nessuno si sarebbe sottratto alle domande» in qualsiasi altro paese occidentale. Giudizi analoghi si potevano leggere sul Pais, sull’Economist, sul Financial times, sulla Bild, su Le Monde.
E che quell’iniziativa abbia innovato, lo si capisce anche dalla eco che ebbe sul web. La nuova macchina dell’informazione. I blog e i siti di politica e giornalismo hanno metabolizzato ad altissima velocità  quel «modello». Su Facebook, in quesi mesi, sono state centinaia di migliaia le firme raccolte per rivolgere a Berlusconi un altrettanto «semplice» appello: «Rispondi». Non può essere nemmeno un caso che una celebre organizzazione no profit come «Open Democracy» abbia rivolto «altre 10 domande». Il precedente, insomma, ha fatto scuola. E non solo sui giornali della stampa «cartacea» ma su quelli che corrono su internet.
«Un bravo cronista – scriveva il giornalista britannico, David Randall nel suo libro «Il giornalista quasi perfetto» – osserva i dettagli, parla con la gente, fa domande. In parte è una questione di tenacia, in parte di quell’istinto che ci fa capire dove succedono davvero le cose. E questo significa non seguire il gregge». Appunto, «fa domande».

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