Global Compact: non tutto è azzurro sotto il logo delle Nazioni Unite

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L’ultima in ordine cronologico è arrivata da Survival International, che si è fatta portavoce degli Indiani Ayoreo, in Paraguay. Secondo questo gruppo etnico il logo del Global Compact delle Nazioni Unite (UNGC) viene utilizzato per mascherare gravi abusi dei diritti umani. I leader della tribù, di cui fanno parte anche gruppi non ancora contattati, hanno scritto ai vertici del Global Compact manifestando la loro preoccupazione e frustrazione per l’inclusione nel programma della compagnia di allevatori brasiliana, la Yaguarete Porà¡. Questa azienda era già  stata accusata e multata l’anno scorso per aver disboscato illegalmente le foreste degli Ayoreo, e per aver nascosto le prove dell’esistenza degli indigeni incontattati che abitano la zona. Per questo motivo gli Ayoreo hanno chiesto la sua estromissione dall’iniziativa dell’Onu. Nella sua risposta – riporta Survival – il Global Compact ha ammesso di non avere “né le risorse né il mandato per condurre indagini su nessuno dei suoi partecipanti”.

à‰ proprio questo il limite maggiore del Global Compact, che trasforma un’iniziativa di forte rilevanza, in un progetto debole e sopratutto ambiguo. E che rischia di diventare uno strumento utile ad aziende in malafede le quali, per lavare la propria immagine sottoscrivono volontariamente i dieci punti fondamentali e pagano un contributo d’iscrizione, trafila necessaria per essere autorizzati ad accompagnare il proprio logo a quello delle Nazioni Unite.

Proprio l’anno scorso, Survival aveva assegnato alla Yaguarete Porà¡ il premio Greenwashing Award 2010 per aver spacciato la distruzione massiccia di un’enorme area della foresta degli Ayoreo per un nobile gesto di conservazione dell’ambiente. “L’adesione al Global Compact delle Nazioni Unite da parte di aziende come la Yaguarete Porà¡ è una vera e propria beffa” – ha commentato Stephen Corry, direttore generale di Survival International. “Se l’Onu non garantisce che le compagnie che espongono il suo logo rispettino le regole, allora queste iniziative perdono qualunque tipo di significato. La Yaguarete dovrebbe essere costretta a lasciare il Compact immediatamente”.

E non è l’unico caso che mina la credibilità  dell’iniziativa. Solo pochi mesi fa il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon ha nominato due nuovi membri dell’UN’s Highest-Level Advisory Body (cioè il maggior organo consultivo): si tratta di Mr. Fu Chengyu e Mr. Li Decheng, in rappresentanza rispettivamente della China Petrochemical Corporation (Sinopec Group) e della China Enterprise Confederation/China Enterprise Directors Association. Secondo Investors Against Genocide – una della organizzazioni che monitorano il Global Compact – Sinopes Group è una delle aziende che in Sudan ha beneficiato del regime di Khartoum.

Le recenti nomine sono la dimostrazione che l’iniziativa è fortemente dominata da interessi commerciali, ma anche che si continuano ad ignorare le raccomandazioni fatte nella recente valutazione pubblicata dal Joint Inspection Unit, l’Unità  di Ispezione delle Nazioni Unite. Nel documento (in.pdf) si rileva tra le altre cose, che il processo di nomina dei membri del Consiglio “non è né democratico né inclusivo”, e si raccomanda al Segretario generale di incoraggiare le reti locali per la nomina dei membri del consiglio del Global Compact. Attualmente il consiglio si compone di 13 rappresentanti di aziende, 2 provenienti da associazioni di categoria, 2 rappresentanti sindacali e 5 organizzazioni della società  civile. I critici affermano che, se il Global Compact intende davvero essere una multi-stakeholder equilibrata, il Consiglio deve avere più rappresentanti delle piccole imprese e una maggiore partecipazione delle organizzazioni della società  civile, ma anche delle agenzie delle Nazioni Unite e degli Stati membri.

“Un Patto Globale di principi e valori condivisi, che darà  un volto umano al mercato globale”, questo doveva essere il Global Compact secondo l’allora Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan che lo lanciò al World Economic Forum di Davos nel 1999. Il Global Compact nasce infatti dalla volontà  di promuovere un’economia globale sostenibile e le aziende e le organizzazioni che vi aderiscono si impegnano a conformare le loro operazioni ai già  citati dieci principi universali, tra cui il rispetto dei diritti umani e la salvaguardia dell’ambiente.

A proposito di reti locali e di società  civile, va notato che della rete italiana del Global Compact fanno parte non solo grandi aziende come Alitalia, Autostrade per l’Italia, ENI (che è promotrice del network italiano), Enel (entrambe tuttora nel mirino della società  civile per violazioni e abusi), così come alcuni gruppi bancari italiani, quali Intesa Sanpaolo e UniCredit (la prima oggetto di critiche per coinvolgimento in industrie produttrici di “cluster bombs” e la seconda per la poca trasparenza nei finanziamenti al settore militare per non parlare di altre perfomances non proprio brillanti dei due gruppi bancari), ma a tutt’oggi vi fanno parte anche alcune Organizzazioni Non Governative e associazioni non profit come Alisei, Cipsi, Coopi e Cittadinanzattiva.

A fronte delle numerose critiche rivolte al Global Compact risulta difficile capire come mai queste ultime – che dovrebbero essere quanto mai prudenti nel legare i propri nomi ad iniziative ambigue – non abbiano ancora riconsiderato la propria adesione o anche solo promosso una seria ridiscussione delle regole di ingresso, monitoraggio e sanzione in caso di violazioni accertate. Sarebbe un contributo necessario, e ormai indispensabile, per rendere davvero credibile e autorevole l’iniziativa delle Nazioni Unite.


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