Il crollo parallelo dei patriarchi milanesi

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assuefatti per cinismo all’idea di eternità  del potere, non avevano compreso che Pisapia era l’antidoto al berlusconismo sprigionatosi dall’interno della medesima società  che lo aveva generato. Pure a sinistra suscitava incredulità , solo la primavera scorsa, uno slogan veritiero come “Milano libera tutti”. E ora fa tremare i polsi di chi ha l’onere di ridisegnare il futuro della metropoli lombarda, immaginarla a prescindere dai colossi con i piedi d’argilla che vi hanno fatto il bello e il cattivo tempo per oltre un quarto di secolo. Trovando in Berlusconi non solo il garante che gli ha fatto oltrepassare indenni la bufera di Tangentopoli, ma, più ancora, il garante culturale e materiale della loro continuità  dalla Prima alla Seconda Repubblica.
Con modalità  non così dissimili, il San Raffaele e l’impero immobiliare di Ligresti simboleggiavano l’egemonia di una destra capace di sottomettere la finanza e la politica, presentandosi come l’unica forma possibile del potere contemporaneo. L’Ospedale San Raffaele, con i suoi reparti d’eccellenza e con la sua università  che esibiva come fiori all’occhiello intellettuali del calibro di Massimo Cacciari, esprimeva l’ambizione alla supremazia in campo scientifico della sanità  privata. Una leggenda metropolitana narra che grazie al polo ospedaliero di don Verzè, Berlusconi abbia ottenuto che gli aerei in atterraggio a Linate non sorvolassero la limitrofa area residenziale di Milano 2, suo primo business vincente. Oggi suona tristemente beffardo notare che l’ufficio in cui si è tolto la vita Mario Cal, il braccio destro di don Verzè, è sito nella medesima via Olgettina dove Berlusconi alloggiava le ragazze selezionate per i suoi festini.
Meno appariscente, ma altrettanto disperata, è la situazione debitoria (due miliardi!) in cui versa il gruppo Ligresti, nonostante la singolare prodigalità  mostrata da Unicredit nel tentativo di soccorrerlo. Dimezzato in pochi mesi il suo valore in Borsa, nessuno può escludere un crac imminente. Vent’anni fa Enrico Cuccia aveva già  salvato dal lastrico il compaesano di Paternò, un costruttore che godeva della protezione speciale di Bettino Craxi. Lo accolse nel salotto di Mediobanca, lasciando intendere che si trattava di una pedina imprescindibile dell’economia di relazione. Nel frattempo Ligresti ha ingigantito la sua influenza, acquistando terreni in tutta l’area milanese e creando il suo polo assicurativo. Non c’è scelta urbanistica che abbia potuto prescindere dai suoi interessi, fino a lasciare intendere che il destino familiare dei Ligresti e il destino di Milano fossero indissolubilmente legati. Non solo il frettoloso piano di cementificazione votato in extremis dalla giunta Moratti, ma perfino le primarie cittadine del centrosinistra furono condizionate dal confronto con quella figura ingombrante: Stefano Boeri addebita la sua sconfitta nelle primarie a maldicenze dovute a incarichi professionali per il gruppo Ligresti.
Non è solo una coincidenza se entrambe le realtà  finite nell’estate 2011 nell’occhio del ciclone si erano ritrovate vent’anni fa coinvolte nelle inchieste di Mani Pulite. Come Salvatore Ligresti, anche il suicida Mario Cal conobbe allora il disonore del carcere, accusato di aver corrotto dei funzionari dell’Ufficio imposte. Ciò non ha impedito loro, nella Milano di Berlusconi, di consolidare una supremazia dovuta anche all’impunità .
Oggi i nodi vengono al pettine. Si scopre la dissennata spregiudicatezza della contabilità  del San Raffaele, e i laudatores di don Verzè cercano di spiegare il miliardo di debiti accumulati come mera conseguenza della sua “santa” megalomania, quando invece si è trattato di dimestichezza nel ricevere finanziamenti sempre per via privilegiata. E allo stesso modo si scopre che Salvatore Ligresti coltivava interessi familiari, con tendenza allo sperpero, che nulla avevano a che fare con gli interessi della collettività .
Pensare una Milano senza don Verzè e senza Ligresti, fino a ieri, risultava impossibile a chi concepiva la subalternità  ai potenti come l’unica via praticabile dalla politica, se voleva aprirsi la via del governo. Così, insieme ai due vecchi patriarchi, e al loro condottiero Berlusconi, giunge al capolinea un’intera classe dirigente milanese che ha fatto dell’affarismo la sua unica cifra distintiva, depredando la città  e comprimendone le energie produttive. La Milano di domani ritroverà  la via dello sviluppo creativo facendo felicemente a meno di loro.


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