Il superpoliziotto che giocava col fuoco tradito da confidenti e amicizie ambigue

by Sergio Segio | 1 Luglio 2011 6:45

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È rimasto intrappolato nella terra di nessuno, sul confine dove certe cose non si possono raccontare. Lui stava lì in mezzo da una vita, ostentando quella sua maniera di essere sbirro.
Uno dei più bravi d’Italia, dicono. Uno che veniva addirittura pronosticato come un possibile futuro capo della Polizia. Uno giovane e già  vecchio. Un specie di fenomeno contro la camorra che è il perfetto ritratto di un poliziotto di mezzo secolo fa.
Spregiudicato, schivo, elegante e altezzoso, nella Napoli dei duri Vittorio Pisani si sentiva il più duro di tutti. Colpa sua e ogni tanto colpa anche di qualcun altro. Il suo questore Merolla, un paio di mesi fa, l’ha paragonato per talento al bomber Cavani. Vecchi metodi polizieschi e risultati investigativi eccellenti (tanti latitanti catturati, tantissimi arresti) l’hanno trascinato in un gorgo. Di sospetti. Dietro a questa «situazione» napoletana, però alla fine c’è solo un piccolo grande mistero: che razza di poliziotto è questo Vittorio Pisani?, come lo è diventato uno dei più bravi d’Italia?, quali armi ha usato per conquistarsi la fama di super-investigatore?
A Napoli a volte non può bastare l’abilità  e non può bastare il fiuto. Troppo complicata e infida. E troppo tempo ci ha passato lì Pisani, un calabrese che non ha più niente di calabrese e che ormai sembrava più napoletano di un napoletano. Mischiato alla città . Immerso nelle sue viscere. Nel 1991 è arrivato come capo della «Omicidi» e se n’è andato nel 1998, è tornato nel 2004 – a soli trentasette anni, oggi ne ha quarantatré – come capo della squadra Mobile. Quindici anni a fare la guerra alla camorra. A modo suo. All’antica. E con tutti i mezzi. Fino a fare lui soffiate sulle indagini del suo stesso ufficio. Ad amici sotto inchiesta che intanto avevano il tempo di far sparire beni all’estero. E depistare.
Poliziotto «dentro» Napoli, quella Napoli. Con un’intimità  sempre più spinta – anno dopo anno e indagine dopo indagine – con le sue fonti, i camorristi. Con un baratto sempre più intenso, un chiedere e un dare al limite e a volte oltre il limite. Con una disinvoltura eccessiva nel portare a conclusione operazioni servendosi di tipi come quel Salvatore Lo Russo dei «Capitoni» di Secondigliano. Grazie a lui prende un boss e salva l’altro, decide lui chi sta dentro e chi sta fuori, decide lui se un’indagine si fa o non si fa. Come usava tanto tempo fa nelle caserme. Tanto tempo fa. Quando altri poliziotti su quella linea di confine si sfioravano e poi pure si piacevano, si facevano confessioni, si aiutavano uno con l’altro. Anche regali si scambiavano. Come riferisce adesso quel Lo Russo su Vittorio Pisani. Maglioncini, casse di vino, pomodorini.
Chi è questo superpoliziotto che a Napoli è diventato un mito e che è stimato da molti (ma non da tutti) in ogni Questura italiana? E’ il portatore di una cultura investigativa che in tante altre città  dominate dal crimine organizzato – Palermo e Reggio Calabria per esempio – è praticamente scomparsa.
E ha un bel dire sempre il questore Luigi Merolla (« Il poliziotto deve anche mettere le mani nel fango per poi uscirne superficialmente sporco, ma pulito dentro. L’importante è che tutto si svolga in un chiaro rapporto con il magistrato») se pensiamo solo a quanti investigatori negli ultimi anni sono morti ammazzati (e anche magistrati come Paolo Borsellino) proprio per avere rifiutato trattative e negoziati con mafie e mafiosi. Il poliziotto Pisani non ha mai fatto mistero del suo «stile», un vanto quella storia con i confidenti, quel traccheggio perenne che altri suoi giovani e assai accreditati colleghi disprezzano. Al contrario lui – il superpoliziotto di Napoli – si è autocelebrato in più di un’occasione.
Come nell’autunno di due anni fa. Prima un attacco violento e a freddo, incomprensibile contro Roberto Saviano in un’intervista sul magazine del Corriere: «Io faccio anticamorra dal 1991, ho arrestato centinaia di delinquenti, ho scritto, ho testimoniato, bè giro per le vie della città  con mia moglie e i miei figli senza scorta…Saviano non doveva avere la scorta, le minacce che aveva ricevute non sono state riscontrate». E poi si è sfogato svelando sino in fondo la sua filosofia di sbirro e quel debole di vecchia data per i confidenti: «Arrestammo dei latitanti e subito dopo fui indagato: ero in contatto telefonico con il latitante Guglielmo Giuliano, un confidente leale..il questore Arnaldo La Barbera mi disse: ‘Nel mestiere l’accusa che ti fanno vale più di un encomio’…». Alla fine ricordò anche: «Quando vado a testimoniare gli imputati mi salutano dalle celle». Proprio come i poliziotti di un’altra èra. Repubblica dedicò un commento all’esibizione di Pisani. Titolo: «Quel poliziotto non può restare».
Così aveva parlato il super-poliziotto autore di saggi – Informatori, notizie confidenziali e segreti di polizia – e che firma aggiornamenti della Treccani alla voce Atti di Polizia Giudiziaria, che non guarda mai la tivù e non legge i giornali, che nel 1987 – primo anno alla scuola di polizia – per i voti più alti vinse il premio Luigi Calabresi. Sul suo essere sbirro nessuno può aggiungere niente e niente in effetti c’è da aggiungere: ha già  detto tutto lui.

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