Il villaggio fantasma palestinese che deve diventare resort di lusso

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GERUSALEMME — Il pavimento nella casa del mukhtar è un mosaico di stracci abbandonati dai vagabondi. Le piastrelle di terracotta sono state estirpate, troppo belle e di valore. Gli alberi di fico e i mandorli invece resistono, hanno radici più forti delle lastre posate dall’uomo: continuano a spartire i frutti che da sessantatré anni nessuno raccoglie. L’acqua che irrigava i campi affonda tra le rocce, sotto a queste colline — dicono — il governo israeliano sta finendo di costruire il bunker che dovrebbe proteggere i ministri e i parlamentari in caso di attacco atomico.
Yacoub Odeh struscia con la scarpa l’erba carbonizzata dall’ultimo incendio («doloso» , dice lui), sta in piedi in mezzo al soggiorno dove ha vissuto fino a quando aveva otto anni. Fuori — anche se un dentro non c’è più — poche pietre bianche disegnano il tabun, il forno dove la madre cuoceva il pane per lui e i sette fratelli. Scatta foto senza smettere, come ogni volta che ritorna «a casa» . Non è la paura di dimenticare: teme che presto non ci sia più nulla da fotografare.
Yacoub è nato nel 1940 qui a Lifta, nell’ultimo villaggio arabo rimasto in piedi e ancora disabitato, tra le centinaia che vennero distrutti (o svuotati e poi rimodellati) durante le battaglie tra il 1947 e il 1948, quando le nazioni arabe vicine risposero con le armi al piano di partizione delle Nazioni Unite. Quella che gli ebrei israeliani celebrano come la guerra d’indipendenza, i palestinesi piangono come la nakba, la catastrofe: in 700 mila fuggirono dagli scontri o vennero cacciati dalle milizie ebraiche. Da allora sono sparsi tra la Cisgiordania, la Giordania, il Libano, la Siria. Su 410 case censite nel 1931 a Lifta, 55 resistono ancora. Diroccate, senza il tetto, altre quasi intatte. Le belle ville raccontano di famiglie benestanti, la macina per l’olio è sempre lì, veniva venduto a Gerusalemme. In febbraio, la Israel Land Administration ha emesso un bando per un progetto: 245 edifici di lusso, un albergo di 120 stanze, un centro commerciale e un villaggio turistico. «La chiamano conservazione — dice Yacoub— ma sarebbe la fine di Lifta. O almeno della mia Lifta» .
L’idea è di tornare a usare per l’area il vecchio nome biblico: Mei Naftoah. Yacoub e suo fratello più giovane Zacharia vivono a Gerusalemme Est. Per loro è più facile che per gli altri rifugiati visitare il villaggio, nella parte ovest della città , e per loro è stato più facile diventare i custodi delle vecchie case. Insieme hanno organizzato la petizione per fermare il piano, hanno trovato l’appoggio anche di organizzazioni israeliane e della sociologa Daphna Golan, che insegna all’Università  ebraica di Gerusalemme. Il giudice ha per ora congelato la gara d’appalto, tra oggi e domani dovrebbe rendere nota la decisione definitiva. «È l’unico villaggio rimasto com’era prima del 1948 — commenta Golan, tra le fondatrici di B’Tselem, centro per i diritti umani —. Gli altri sono stati rasi al suolo o sono stati trasformati in comunità  per artisti e bohémien. Va protetto perché il nuovo complesso è un tentativo di cancellare il passato» . La bandiera palestinese è incisa con il coltello nella pala paffuta del fico d’India.
 I giovani ebrei ortodossi si tuffano nella sorgente, arrivano al tramonto dalla scuola religiosa che li ospita poco lontano. «Le sere d’estate — racconta Yacoub— ci sedevamo attorno all’acqua, era la piazza del villaggio e aspettavamo che le mamme distribuissero le prugne» . Vorrebbe che Lifta diventasse un memoriale, anche se ormai è circondato dai graffi del presente. Il dito d’acciaio bianco del ponte disegnato da Santiago Calatrava spunta dietro la montagna, già  bucata dalle gallerie per la nuova linea ferroviaria che salirà  da Tel Aviv. «Non credo di poter tornare a vivere qui. Conservo ancora la chiave con cui mio padre ha chiuso la porta per l’ultima volta. L’abbiamo presa e tenuta perché pensavamo saremmo stati via per poco» .


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