Internet. Da Altavista a Second Life i siti diventati archeologici

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Ho impiegato più di un’ora per ricordarmi chi ero. Non nella vita, quello ancora me lo rammento. Chi ero nella Second Life: come si chiamava il mio avatar, che sembianze aveva. Ho dovuto frugare nei meandri del computer, dare al finder parole chiave che mi riportassero indietro nel tempo, a un articolo che avevo scritto.
E in cui ero sicuro di aver menzionato il nome del mio alter ego virtuale caduto in disuso e quindi nell’oblio. Infatti, eccolo: Eden Gaudio. Oddio. Quanto tempo è passato? Meno di tre anni.
Digitalmente, un’epoca.
Una (seconda) vita fa quell’esistenza virtuale sembrava imprescindibile, almeno dando retta ai media. Il fenomeno Second Life era sulla maggioranza delle copertine, veniva citato negli editoriali, si raccontavano storie di alacri avatar che, investendo moneta virtuale, avevano reso ricco il proprio umano.
Incontravi gente tutta felice perché aveva comprato finalmente un bel terreno per farci la casa dei sogni. Sullo schermo del computer. Grandi star della musica, dagli U2 ai Depeche Mode, si esibivano in concerti su palchi immaginari. Due amici fotografi mi invitarono alla loro mostra in una galleria virtuale, il vernissage fu drammaticamente interrotto dall’apparizione di un terrorista, poi abbattuto dalla polizia di Second Life, che non concede seconde opportunità . «Tutto ormai avverrà  lì», pronosticavano i più, rassicurati dal virtuale conformismo. Poi, che è successo? Ci vorrebbe uno studio di Malcolm Gladwell, il giornalista del New Yorker diventato un guru per la capacità  di individuare e raccontare i punti critici, gli attimi che cambiano la storia individuale e collettiva, le nascoste ragioni di successi e fallimenti. Non avendo a disposizione i suoi tempi e apparati, azzarderò: tutta colpa dei Pollard. Sono loro gli assassini della seconda vita. Qualcuno forse li ricorderà . Lei chiese il divorzio perché l’avatar di lui se la faceva con l’avatar di altre donne. Lo scoprì ingaggiando un investigatore virtuale pagato con la valuta di Second Life. Ecco, c’è un istante in cui il futuro precipita nel ridicolo, una cavalcata trionfale si riduce a un carnevale, l’idea che doveva cambiare il mondo apre gli occhi e si scopre un’elegante sciocchezza. In quell’istante eserciti d’acciaio si sciolgono, razzi ricadono come fuochi artificiali, la gente fa clic e quel che era scompare. I coniugi Pollard. E, dopo di loro, il diluvio. Venne fuori che gli iscritti a Second Life erano effettivamente molti, ma meno di un milione ci viveva almeno un minuto al mese. E sul web questa non è certo la cifra di una megalopoli. Già  nel 2009 apparvero i primi articoli dal titolo «C’era una volta Second Life» o «Che fine ha fatto Second Life?». Raccontavano che i negozi virtuali allestiti nel mondo parallelo avevano chiuso per insufficienza di visite. Che la tecnologia di base necessaria si era rivelata troppo complessa. Ma soprattutto che faticava a rendersi compatibile con gli smartphone. Dopo le coltellate dei Pollard, il colpo di grazia da iPhone e Blackberry. Goodbye Eden Gaudio.
Oggi praticamente nessuno più parla di Second Life, eppure sopravvive.
Nella rete (quasi) nulla scompare. Lo spazio virtuale tende all’infinito, non occorre radere al suolo una città  per far posto a un’altra. Un declino non comporta necessariamente una chiusura. Ma quel che rimane assomiglia a Pompei.com. Esistono macerie virtuali tra le quali navigano nostalgici o cocciuti.
L’elenco è lungo e destinato a crescere. In 15 anni la mappa dei siti diventati archeologia si è espansa come nessuna nel mondo reale. Pensa soltanto al motore di ricerca. Nel 1996 per documentarmi usavo, che cosa? Il nome mi è riaffiorato dall’abisso come quello di Eden Gaudio: Altavista. È una “madeleine” del ciberspazio. Cannibalizzata da Google. Praticamente ho dovuto googlarla per ritrovarla, Altavista. Eppure c’è, funziona, ora come allora. Non saprei dire, a prima vista, se meglio o peggio di Google. Non ricordo neppure quando ho smesso di farne uso e sono passato alla concorrenza, come tutti. So che non mi verrebbe in mente di “altavistare” qualcuno. Però ci ho provato e ho capito la sensazione. La stessa che ho avuto ri-passeggiando brevemente per Second Life. Estraniamento. Lentezza. Passato. Tutte parole che su Internet uccidono. Infatti mi sono sentito, come dire, disconnesso. Lo stesso capita da altre parti. Alla maniera di Google, anche Facebook ha fatto il vuoto. Negli altri social network ci si va come in visita agli zii. Anche i teorici del «My Space è meglio», torto o ragione che avessero, si sono arresi.
Eppure My Space è ancora lì, esiste e resiste, ma è una 500 prima versione, mentre Zuckerberg è oltre la curva in Ferrari. Ci sono soglie diventate off limits, siti che assomigliano a case in cui l’ex partner ha cambiato la serratura e non puoi più tornare a vedere le stanze dove hai trascorso anni.
Semplicemente, hai scordato la password. Le parole chiave sono, anch’esse, segno di una stagione, se non di un’epoca. Le cambi ripetutamente e poi come ritrovi quella che usavi quando ti sei iscritto a «A small world»? Small world, un altro fantastico ricordo. Quanto ne hanno scritto, lo chiamavano il Facebook dei vip, perché dovevi essere presentato, come in un club. E avere contatti lì era considerato come avere un’agenda di prestigio.
Affidabilissimo. Su Smallworld ho comprato una Vespa di seconda mano e affittato una casa, perché chi sta lì non ti può dare fregature, o si rovina la reputazione.
Ho provato a tornarci (con una nuova password). C’è ancora, organizza eventi, si espande. Ma quando ho cercato di rispondere a qualche annuncio mi sono accorto che la data era 2008, 2009. Una (seconda) vita fa.
Quella in cui tutti mettevano foto su Flickr. Ora gli esperti, gli eterni ragazzi eternamente wired, mi dicono che sta per diventare un polveroso album di famiglia. Mi danno un elenco di Pompei.com praticamente infinito, dai bookmark a Google wave. E una caterva di blog. Chi non ne ha tenuto uno? Poi la rete ha selezionato. Si sono salvati quelli sotto l’ombrello di un marchio e quelli che hanno sfondato. Ma gli altri sono rimasti. A volte googli un personaggio e nella ricerca ti viene fuori il post di un blog chiuso, ma ancora visibile, come la luce di una stella morta.
Così funziona la vita su Internet. Il concepimento è una pratica sbrigativa e senza selezione. Non occorre crederci veramente.
Mettere al mondo (virtuale) qualcosa costa relativamente poco. Si prova tutto e si vede. Quel che funziona cresce. Il resto avvizzisce. Ma non scompare, resta lì, visibile traccia di un passato che sembra remoto, ma era tre anni fa. Il tempo della vita di Eden Gaudio.


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