La cupidigia privata e la virtù pubblica

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Ritenendosi colpevoli di eccessivo indebitamento, cercano negli attributi di un’apparente virtù da imporre – lavorare di più, spendere meno – la chiave di un ritorno alla morale. In Europa, questa filosofia si traduce nella paralisi decisionale. Come scriveva Michel Serre, «vi è crisi quando si è costretti a scegliere all’interno di uno spazio indecidibile». Ora, ciò che qui rende lo spazio indecidibile è la contraddizione tra le esigenze dell’Unione e quella della «virtù». Le prime presuppongono l’affermazione, incessantemente ribadita, di una solidarietà  di bilancio; la seconda, che ciascuno metta ordine in casa propria, qualunque sia il prezzo da pagare per la popolazione. Di vertice in vertice, le mezze soluzioni proposte controvoglia non possono convincere, dato che per definizione mancano di credibilità . I programmi di rigore si susseguono a ritmo accelerato nei Paesi detti periferici, fino a propagarsi oggi al cuore dell’Europa.
Negli Stati Uniti la virtù, parziale oltre che di parte, dissimula a stento il suo cinismo. I repubblicani, infervorati dalla loro crociata contro il big government, rifiutano qualsiasi programma di riduzione dei deficit e del debito che non sia fondato sui tagli alle spese pubbliche e sociali. Dato che a beneficiare di queste ultime, qui più che altrove, sono le fasce più fragili della popolazione, già  stremate dalla crisi finanziaria, è chiaro che questi tagli aggraverebbero ulteriormente le disuguaglianze, in una società  già  sperequata oltre ogni ragionevole limite.
Dunque stavolta, sulle due sponde dell’Atlantico, è la politica, più che i mercati, a mettere il mondo nei guai. A ben vedere, è all’opera quella stessa idea che giudica «perversa» una supposta redistribuzione – tra Paesi membri nel nostro caso, tra cittadini in quello degli Stati Uniti: al pari dei contribuenti tedeschi che non vogliono finanziare «le ferie e le pensioni» dei greci, gli americani più ricchi rifiutano di contribuire alla previdenza sociale dei meno favoriti. Ciò che si presenta sotto le parvenze della virtù – il ritorno a un livello di indebitamento pubblico più sostenibile – si rivela così per quello che è: l’egoismo dei ceti abbienti.
Ma a cosa andremmo incontro se a prevalere fosse la soluzione «virtuosa»? La solvibilità  – ossia la capacità  di rimborsare i propri debiti – è una questione che riguarda il futuro, e dipende – come tutti sanno – dall’entità  delle entrate a venire, a confronto con le somme da rimborsare. Ora, i programmi di austerità  troppo rigidi restringono le prospettive in materia di proventi, mentre i tassi di interesse elevati fanno lievitare i ratei dei rimborsi. In tal modo la speculazione si rivela auto-realizzatrice, producendo le condizioni stesse dell’insolvibilità : rialzo dei tassi di interesse, e quindi del servizio del debito, compensato aritmeticamente dai tagli alla spesa e dall’aumento delle imposte. Aritmeticamente, dato che il programma di austerità  indebolisce le prospettive di crescita. Un recente studio (Fitoussi e Timbeau, 2011) ha dimostrato che senza l’addizionale programma di austerità  e a un tasso di interesse equivalente alla media europea, il debito greco era vicino alla sostenibilità . Di fatto, in assenza di una soluzione «redistributiva», il contagio della speculazione rischia di determinare un’insolvibilità  crescente nei Paesi dell’Eurozona. E non solo: le banche che detengono titoli pubblici chiamerebbero nuovamente in soccorso gli Stati, nel momento in cui questi ultimi non sarebbero più in grado di far fronte alla richiesta. I governi di Atene e di Madrid dovrebbero allora imporre alla popolazione nuove misure di austerità  per poter ricapitalizzare le banche che non hanno superato lo stress test europeo? Quello che si profila è il blocco del mercato interbancario del credito – e infatti già  ora diverse banche hanno difficoltà  ad accedervi.
I responsabili dell’Eurozona giocano dunque con il fuoco, e rischiano di precipitare l’Europa e il mondo intero in una nuova crisi di vasta portata, che potrebbe rivelarsi insopportabile per le popolazioni, già  fin troppo provate. Lo squilibrio della costruzione europea, da me più volte sottolineato, conduce a una politica dell’impotenza, che col pretesto delle responsabilità  nazionali organizza l’irresponsabilità  europea. Vedremo se il vertice europeo di giovedì prossimo saprà  impegnarsi, senza temporeggiamenti, sua una via più federale – emissione di eurobond, conferimento al Fondo europeo dell’autorizzazione di stabilizzazione finanziaria, consentendo al governo greco di riscattare titoli del debito pubblico sul mercato secondario, in mancanza di una soluzione più risolutamente federale. O se invece si continuerà  a ricercare improbabili soluzioni tecniche, per timore di affermare chiaramente una solidarietà  europea. È così difficile comprendere che la speculazione oggi in atto trae la sua origine dall’indecisione politica, assai più che dalla situazione delle finanze pubbliche dell’Eurozona, notoriamente la più sana tra i grandi Paesi industrializzati? È l’architettura della governance europea – un sistema federale di politica monetaria, ma confederale per la politica di bilancio – a dimostrarsi insostenibile, ben più del debito pubblico dei Paesi dell’Eurozona.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)


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