L’Italia povera dei lavoratori

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«Alzino la mano quanti di voi sono poveri». Se Giulio Tremonti invece di chiederlo alla platea chiccosissima di giornalisti, giuristi e magistrati contabili della Corte dei Conti, come fece il 24 maggio scorso quando l’Istat lanciò l’allarme di un italiano su quattro a rischio povertà , avesse avuto il coraggio di rivolgere l’invito in una qualsiasi piazza di un qualsiasi paese del Mezzogiorno d’Italia, avrebbe avuto solo l’imbarazzo della scelta. Avrebbe potuto decidere se ascoltare le storie di coloro che vivono in uno stato di «povertà  relativa» – in crescita dal 36,7% del 2009 al 47,3% del 2010 tra le famiglie con tre o più figli minori – o piuttosto le voci di quel 6,7% di meridionali che vive in uno stato di «povertà  assoluta». Dove la linea di demarcazione per la povertà  «relativa» è fissata – secondo i dati Istat diffusi ieri nel rapporto «La povertà  in Italia, anno 2010» – mediamente a 992 euro mensili per un nucleo familiare di due componenti, ma scende a 779 euro al mese nel Sud Italia.
Ed è proprio tra la Campania e la Sicilia che continua ad essere maggiormente diffusa la povertà , «in associazione con bassi livelli di istruzione, bassi profili professionali (working poor) ed esclusione dal mercato del lavoro». Ma anche rimanendo dalle parti di Pavia, o di Roma (certo, non in quel di Campo Marzio), al ministro dell’Economia non avrebbe dovuto sfuggire l’impoverimento generale delle famiglie italiane a cui invece ha chiesto il maggior contributo per il risanamento del bilancio pubblico. Secondo l’Istat, quasi 8,3 milioni di residenti nel Belpaese vivono nel 2010 in condizioni di povertà  relativa (il 13,8% del totale). Tradotto in famiglie, di cui si fa tanto parlare, si tratta dell’11%: 2 milioni e 734 mila nuclei. Se invece rivolgiamo lo sguardo alla «povertà  assoluta», cioè a coloro che non riescono ad accedere al paniere minimo di beni e servizi considerato essenziale in un Paese occidentale, il dato si riduce a 1 milione e 156 mila famiglie (il 4,6% di quelle residenti) per un totale di 3 milioni e 129 mila persone (5,2% del totale).
Ovviamente la situazione più critica è quella delle famiglie più numerose, magari con membri aggregati, anziani o malati. Ma c’è un dato che emerge con chiarezza: «C’è un peggioramento delle tradizionali forme di povertà  che sono quelle delle famiglie di working poor, per esempio le famiglie operaie in cui lavora uno solo o ci sono figli da dover mantenere», ha spiegato ieri Linda Laura Sabatini, direttrice centrale Istat. Della nuova «povertà  operaia» ne parlava già  Marco Revelli nel suo libro «Poveri, noi» (2010, ed. Einaudi) quando faceva risalire la comparsa del fenomeno dell’«in-work poverty», considerato fino a un quindicennio fa un ossimoro, a «ben prima dell’esplodere della crisi dei sub primes». Revelli spiega che se nella grande Europa d’inizio secolo quasi il 9% di lavoratori è povero, in Italia le cose vanno decisamente peggio salendo di oltre 6 punti percentuali. I dati Istat aggiornati al 2010 rivelano che la povertà  relativa aumenta rispetto all’anno precedente tra le famiglie «con persona di riferimento lavoratore autonomo (dal 6,2% al 7,8%) o con un titolo di studio medio-alto (dal 4,8% al 5,6%) a seguito del peggioramento osservato nel Mezzogiorno (dal 14,3% al 19,2% e dal 10,7% al 13,9% rispettivamente), dove l’aumento più marcato si rileva per i lavoratori in proprio (dal 18,8% al 23,6%). Tra le famiglie con persona di riferimento diplomata o laureata aumenta anche la povertà  assoluta (dall’1,7% al 2,1%)». Peggiora, prosegue il rapporto, «la condizione delle famiglie di ritirati dal lavoro in cui almeno un componente non ha mai lavorato e non cerca lavoro, si tratta essenzialmente di coppie di anziani con una sola pensione, la cui quota aumenta dal 13,7% al 17,1% per la povertà  relativa e dal 3,7% al 6,2% per quella assoluta».
Anche la Confederazione italiana agricoltori ha voluto aggiungere ieri alcuni dati: «Due famiglie su 5 sono costrette a tagliare la spesa alimentare e 3 su 10 comprano soltanto promozioni, sempre più frequenti nella nostra catena distributiva. Mentre il 10% delle famiglie dice addio a pizzerie e ristoranti». Sono sempre di più quelle che fanno spesa nei discount (10%) o che riducono l’acquisto di beni alimentari (il 38,5% carne e pesce, il 41,5% frutta e verdura).
Sono dati «incompatibili con un paese civile», protestano le associazioni di consumatori. Mentre l’opposizione accusa: «Dimostrano il fallimento del governo». Eppure c’è chi, come la Caritas, contesta il rapporto spiegando che i freddi dati della «povertà  assoluta» e «relativa» non riescono a fotografare l’impoverimento generale. Così, se «tutti stiamo peggio e la situazione economica delle famiglie italiane si è aggravata», spiega la Fondazione Zancan della Caritas, «chi sta “meno peggio” non è più conteggiato nella categoria di “povero relativo”, pur trovandosi nella medesima condizione economica di un anno fa». 87
MILIARDI È quanto vale, tra tagli e maggiori tasse, la manovra varata ieri definitivamente dalla Camera dei Deputati. Con 316 voti di fiducia: la 47sima in tre anni.
E senza opposizione parlamentare 992
EURO AL MESE Di tanto dispongono le famiglie composte da due persone che sono considerate sotto la soglia di «povertà  relativa». Nel Mezzogiorno la disponibilità  economica mensile delle famiglie «indigenti» scende a 779 euro40% < br />delle famiglie taglia la spesa per i beni alimentari, secondo i dati distribuiti ieri dalla Confederazione agricoltori italiani. Ridotto l’acquisto di carne e pesce (il 38,5%)
e di frutta e verdura (il 41,5%)


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