Nigeria, incubo Boko Haram

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Il vero nome, quello che quasi tutti hanno dimenticato, è Jama’atu Ahliss-Sunnah Lidda’awati Wal Jihad (Popolo devoto agli insegnamenti del Profeta per la diffusione e la guerra santa, ndr) ma ormai in Nigeria tutti la conoscono come Boko Haram (l’educazione occidentale è vietata, traducendo in maniera approssimativa), una setta radicale islamica che è tornata a insanguinare il nord del Paese e che comincia a far paura anche altrove. Ad Abuja, la capitale, centinaia di chilometri più a sud dai centri che sono diventati il principale teatro operativo della formazione, mercoledì è stato imposto il coprifuoco: cinema, birrerie, locali, devono chiudere prima, alle 22. I parchi in cui ci sono spazi per i bambini addirittura alle 18. La setta fa paura, soprattutto perché sembra nel mezzo di un processo di trasformazione per cui se già  prima era poco chiaro cosa fosse, ora è la sua natura è un interrogativo che inquieta le autorità . Tra sabato e domenica, il gruppo ha colpito ancora, a Maiduguri, con tre attentati in cui sono rimaste uccise più di 10 persone: assalti fucili in mano e una bomba piazzata in un locale frequentato da poliziotti. Ma un campanello d’allarme era suonato domenica 26 giugno, quando un commando di Boko Haram ha attaccato un beer garden del centro di Maiduguri, dove poco dopo è esplosa un’autobomba. Sono morte 35 persone, un massacro indiscriminato. Ma è solo l’ultimo atto di una serie di attentati che sono (ri)cominciati nella seconda metà  dell’anno scorso e che dall’inizio di maggio hanno registrato un’escalation.

Il 10 maggio viene freddato un sindacalista, il giorno dopo tocca ad un imam ritenuto troppo moderato. Il 13 maggio cade un ispettore di polizia. Sempre a Maiduguri, la capitale dello stato settentrionale del Borno dove la setta ha le sue basi principali. Tredici morti si contano il 27 maggio a Damboa, Borno, dove un commando di una settantina di miliziani assalta due stazioni di polizia e una banca. Due giorni più tardi, subito dopo il giuramento del presidente Goodluck Jonathan, il gruppo attacca quasi simultaneamente a Zuba, nell’area metropolitana della capitale federale Abuja, a Maiduguri e negli stati del Bauchi, dove attacca una caserma e uccide 14 persone, e del Kaduna. Nello stesso giorno, a Kankara, stato del Katsina, uccide sei poliziotti e un civile. Il 7 giugno cade Sheik Ibrahim Birkuti, importante leader islamico, critico nei confronti di Boko Haram. E ancora: due morti e quattro feriti sono il bilancio di un attacco ai danni di cittadini che erano in attesa di un autobus il 20 giugno. Una piccola porzione di una macabra contabilità  sempre più difficile da tenere. Spicca su tutti, però, l’attentato con cui, il 16 giugno, il gruppo ha colpito il quartier generale della polizia nazionale. L’obiettivo era l’Ispettore generale Hafiz Ringim, mancato di un soffio, ma uccidendo otto persone. Episodio inquietante, sia perché dimostra che la formazione ha allargato il suo raggio operativo, arrivando nella capitale e nel cuore del potere, sia per la facilità  con cui i killer sono riusciti ad entrare nel parcheggio interno. Pare che uno dei terroristi avesse avuto un abboccamento con lo stesso Ringim, presentandosi come un membro di Boko Haram pentito e deciso a lavorare da infiltrato. L’altro particolare che spaventa è che forse tra gli autori c’era anche un kamikaze, altro elemento inedito che suggerisce che la setta stia cambiando pelle e stia ricevendo sostegno economico e operativo da formazioni africane d’impronta qaedista, come i rami nigerini dell’Aqmi (al Qaeda nel Maghreb islamico) e i somali di al Shabaab.

Nell’ondata di arresti seguiti all’attentato al quartier generale della polizia, sono finiti in manette anche miliziani di origine somala e sudanese, un’altra novita inquietante. Anche questo spiega perché Washington abbia inviato una squadra dell’Fbi per collaborare alle indagini sulle bombe di Abuya. L’altro motivo è la vulnerabilità  degli apparati nigeriani. Eloquente anche la decisione di affidare le rilevazioni sulla scena del crimine ad un’unità  speciale proveniente da Lagos, 540 chilometri più a sud, piuttosto che ai detective della capitale, che dà  l’idea del clima di sfiducia che si respira ai vertici degli apparati. D’altronde di errori fin qui politici e militari ne hanno fatti molti. L’aver fatto finta di non capire che all’origine della fortuna del gruppo non c’è un’adesione incondizionata alla richiesta di una più rigida applicazione della Shaaria, già  in vigore in una decina di stati del nord, centrale nel programma “politico” del gruppo, ma un groviglio di problemi in cui si intrecciano la povertà  cronica che affligge il nord, tensioni di natura etnica fino a pulsioni dichiaratamente secessioniste, è stato un grave errore. Dov’erano le forze di sicurezza quando Boko Haram cominciò a muovere i primi passi nel 2002, quando faceva proselitismo, diffondeva un Islam radicale e poco in linea con quello diffuso nell’Africa occidentale? Qualcuno si è mai preso la briga di elaborare dossier sui sistemi di finanziamento del gruppo? Queste le domande poste da Simon Kolawole, columnist del quotidiano This Day. Poca intelligence e molta repressione, una strada che ha condotto al caos di oggi, passando per un’operazione nel 2009 in cui furono arrestati e torturati centinaia di sospetti attivisti. Fu catturato e ucciso anche il fondatore della setta, Muhammad Yusuf. Il suo cadavere fu poi mostrato in tv.  L’evoluzione terrorista della formazione è cominciata allora. Boko Haram ha recentemente posto delle condizioni per smettere di uccidere. Tra i primi punti, c’é la condanna dei poliziotti implicati nell’omicidio di Yusuf. Il loro processo comincerà  a metà  luglio. Saranno giorni ad alta tensione.


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