Ora dobbiamo costruire un «dopo» di dialogo

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Il sole ieri è tornato a Oslo, dopo la pioggia e il cielo grigio che grtavava dal giorno della strage terrorista venerdì. Le gigantesche marce di lunedì in tutta la Norvegia per onorare i defunti e riaffermare sostegno a una società  democratica e aperta sembrano aver infuso un extra di gentilezza nei norvegesi, o per dirla più chiaramente: amore, come nel graffiti «oslove» che si legge un po’ ovunque in città . Dopo la «marcia delle rose» il centro di Oslo è pieno di fuiori – ogni strada, finestra rotta , barriera messa a proteggere i passanti dagli edifici danneggiati, ogni segno della distruzione inflitta dalla bomba è coperto di fiori. La marcia ha dato un segno di fiducia ai cittadini di oslo e di tutta la Norvegia: non lasceremo che succeda di nuovo.
Ieri dunque i caffé all’aperto erano di nuovo affollati, e così le strade – anche se il silenzio domina ancora: ci si parla a bassa voce, non per paura ma per una sorta di rispetto.
Presto comincia la costruzione del «dopo», e non sarà  facile. Questo «dopo» è proprio cià  che il primo ministro, Jens Stoltenberg, ha ripetuto nel suo discorso alla folla di 200mila persone (in una città  che fa a malapena un milione di abitanti inclusi i suburbi) raccolte lunedì sera nella piazza del Municipio di Oslo. Stoltenberg lo ha ripetuto di continuo fin dalla sera degli attacchi: «Ci sarà  un prima e un dopo, e questo dopo sarà  una società  ancora più aperta, calda e democratica». Il leader del Auf, sopravvissuto all’attacco di Utà¸ya ha aggiunto che questo «dopo» non sarà  di sicurezza e censura ma di più dibattito, «discuteremo questa vizxione di morte».
Molti, all’astero, hanno messo a paragone l’appello di Stoltenberg a «più democrazia, più apertura» con il «vi daremo la caccia» pronunciato da George W. Bush dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001. Beninteso c’è una differenza tra essere attaccati da una «forza» esterna o da «uno di noi», ma Stoltenberg ha pronunciato queste parole ancor prima che l’identità  dell’attaccante fosse nota. Dopo che l’identità  del terrorista è stata conosciuta, e l’uomo arrestato, nessuno ha parlato di vendetta. Qualcuno ha urlato contro l’auto che trasferiva Anders Behring breivik in tribunale, ma non erano molti. C’è stato qualche appello a reintrodurre la pena di morte, ma anche queste voci sono del tutto marginali. I più ripetono che non bisogna darla vinta al terrorista abbracciando la sua causa. C’è chi è passato a una tattica più creativa: il terrorista afferma che l’attacco era una sorta di marketing per il suo «manifesto»? Allora meglio fare a pezzi il cosiddetto «manifesto», cambiarne i contenuti e diffonderlo in rete in modo che non sia possibile distinguere l’originale.
E’ ancora il momento dell’abbraccio pubblico, del ritrovarsi per esprimere la socidarietà  a ogni cittadino, ogni essere umano. Ma si avvicina il momento in cui bisogna passare a costruire il «dopo»: e con questo, il momento di affrontare la questione delle ideologie di odio da cui una pèarte della società  si è lasciata sedurre. Come affrontare la zenofobia su cui politici e intellettuali della destra hanno giocato – senza perdere l’atmosfera di dialogo e gentilezza? Abbiamo passato il test del terrorismo, non ci siamo piegato all’odio e al sentimento di vendetta, il nostro governo si è mostrato all’altezza della situazione: ma saremo capaci di costruire una società  in cui le ideologie di odio vengono portate alla luce e, come i diabolici troll delle nostre fiabe scandinave, vengono distrutte dai raggi del sole?
Un’altra sfida è davabnti a noi, ancora più grande: sono quasi dieci anni dagli attacchi terroristi che hanno cambiato il mondo e reso peggiori le nostre società . Potrà  la Norvegia, dopo la sua esperienza con il terrorismo, indicare una nuova era di democrazia governata dal dialogo sulle questioni reali della società , invece delle che dal gioco oscuro degli antagonismi e dei capri espiatori?
* direttore di le Monde Diplomatique, edizione norvegese


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