Più tasse meno salari

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 Domani all’ora di cena la manovra triennale di Giulio Tremonti sarà  legge. La trattativa febbrile delle ultime ore tra maggioranza e governo ha peggiorato le già  fosche previsioni della vigilia. Dal 2014 le tasse aumenteranno non di 15 miliardi ma addirittura di 20 (la metà  dello sforzo di risanamento dei conti). Già  dal 2013 i lavoratori dipendenti pagheranno sicuramente 4 miliardi in più per il taglio del 5% delle agevolazioni fiscali (famiglia, sanità , etc.). Un taglio lineare delle detrazioni che salirà  addirittura al 20% se entro il 30 settembre 2013 (cioè prima delle elezioni), se il governo non avrà  esercitato la famigerata delega per la riforma fiscale con le tre aliquote, l’aumento dell’Iva, etc. Detto altrimenti, se questo governo non riesce ad abbassare le tasse (per i ricchi e sui consumi), allora quel fallimento sarà  spalmato su tutti i contribuenti e scaricato sul prossimo governo. Così vanno le cose.

Tremonti interviene all’Abi e annuncia che la sua manovra sarà  «rafforzata». Detto fatto. Vengono anticipate subito alcune misure particolarmente odiose: da lunedì si pagheranno i super-ticket da 10 euro su esami e diagnostica e da 25 euro per i codici bianchi al pronto soccorso (una misura che da sola a regime frutterà  960 milioni di risparmi). Tra i ritocchi dell’ultimo minuto presentati dal relatore qualche balzello simbolico in più anche per i ricchi: +10% di tasse sulle «stock option» dei manager e un contributo di solidarietà  del 5% sulle pensioni d’oro da 90mila euro in su (10% da 150mila euro in su). Rimane, anche se leggermente ammorbidita, anche la sforbiciata su quelle sopra i 2341 euro lordi (5 volte il minimo). Per loro, come quelle superiori, sono previsti blocchi scaglionati della rivalutazione. A conti fatti, rimangono integre solo le pensioni inferiori ai 1.400 euro lordi al mese. Tutte le altre si impoveriranno inesorabilmente nel tempo. Già  che c’era, dal 2012 si allungano anche da 1 a 4 i mesi di attesa per andarci anche per chi lavora da 40 anni (!) e ne ha diritto e requisiti. Qualche concessione (scusate il bisticcio) anche ai concessionari autostradali e non Tremonti ha ammorbidito solo in parte l’aumento dei tempi di ammortamento da 30 anni a 100. Alla fine saranno 50, guarda caso proprio com’era previsto nelle primordiali bozze del decreto. Rimodulato solo parzialmente anche il super-bolo sul deposito titoli in banca. E rimane, nonostante i prezzi record, anche la super-accise sulla benzina introdotta l’anno scorso (un aumento che vale da solo 1,8 miliardi all’anno). Privatizzazioni: anche se è a fine corsa, entro il 2013, cioè prima delle elezioni, il governo venderà  le quote azionarie delle società  partecipate (Eni, Enel, Finmeccanica, etc.). Quante, quali, come, lo sa il fato. Mentre sulle municipalizzate dei servizi pubblici (acqua, rifiuti, energia, trasporti, etc.) l’obbligo a vendere cancellato dal referendum torna sotto mentite spoglie (vedi articolo a fianco).
Il Pd, che avendo rinunciato a giocare la partita assiste al massacro dalla tribuna, alza il sopracciglio: «Con gli ultimi emendamenti governo e maggioranza sono riusciti nella difficilissima impresa di rendere ancora più iniqua una manovra già  profondamente classista, scaricata su ceti medi e bassi», commenta sgomento Stefano Fassina, responsabile economia dei democratici. Anche la capogruppo Anna Finocchiaro constata che nessuna delle proposte dell’opposizione è stata accolta dal governo nonostante la disponibilità  sui tempi e le reciproche pacche sulle spalle.
Dal punto di vista politico, Tremonti rivendica la sua manovra e anzi ricalca la sua firma. All’Abi smentisce definitivamente le sue dimissioni (ma chi c’aveva creduto?): «Hic manebimus optime, la manovra e i successivi adempimenti sarà  accompagnata da chi si prende la responsabilità  di averla presentata». Cioè lui e solo lui. Lo stesso Tremonti che non più tardi di lunedì scorso, tre giorni fa (!), aveva gabbato il vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini assicurandogli che «chi ci chiede di fare di più, o di anticipare ad oggi le misure previste per il prossimo triennio, non ha capito nulla. Se lo facciamo ci suicidiamo: ammazziamo il paese». Oggi, come se nulla fosse, Tremonti, secondo le sue stesse parole, arma la pistola che ucciderà  se non questo il prossimo governo.
Un’ammissione implicita che i suoi conti erano truccati, alla greca, opachi e pieni di buchi, come gli avevano detto tutti: Bankitalia, Quirinale, Confindustria, opposizioni. Come nel più disperato dei poker, un super-ministro sempre più screditato per le inchieste giudiziarie rilancia tutta la posta anticipando il massacro sui malati, i lavoratori, i servizi pubblici, gli insegnanti.
Anche oggi però non mancano gli avvertimenti. Basta leggere i resoconti della Bilancio in senato: istituzioni come Istat, Bankitalia e Cnel non nascondono la preoccupazione per gli effetti reali del decreto. «Senza sviluppo la manovra è socialmente insostenibile» (Cnel). «Senza decisi tagli alla spesa è inevitabile aumentare le tasse (Bankitalia). «C’è il forte rischio di aumento delle tariffe, mentre il blocco dei salari nel pubblico impiego rischia di demotivare il personale e di allontanare le risorse più qualificate» (Istat). Non tutto ciò che è nella manovra è sbagliato, naturalmente, ma il volto classista, metodicamente e orgogliosamente sadico, di ogni intervento è ormai scritto nero su bianco fino al 2014. Peccato che il parlamento non abbia avuto il tempo di leggere e Napolitano firmerà  domani senza battere ciglio. Lo stesso Quirinale, tra l’altro, che aveva già  avvisato solennemente di non cambiare i decreti in corso di conversione. E’ una «coesione nazionale» che costa molto. Sempre agli stessi.


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