“Chiedevamo pietà  e lui sparava” tra i ragazzi dell’isola della morte

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SUNDVOLLEN. «È stata una scena terrificante. Quel poliziotto che urlava “venite più vicini”, poi gli spari, il sangue, le grida “non ucciderci”. Siamo scappati in preda al panico, qualcuno si buttava in acqua, io mi sono nascosta nei cespugli. Mi sembrava un incubo ma era tutto vero». Hana ha 18 anni, i capelli biondi e fatica a parlare. La voce è flebile, un mormorio, gli occhi terrorizzati di chi ha visto la morte in faccia.
Davanti al Sudvollen Hotel lei ed altri ragazzi scampati alla strage raccontano quel maledetto venerdì pomeriggio, quando una festa di adolescenti in un’isoletta in mezzo ai fiordi si trasformata nel male assoluto sotto le sembianze di un finto poliziotto.
L’isola maledetta è lì davanti, poche centinaia di metri da questo agglomerato di case, due hotel e un supermercato che è diventato il rifugio degli scampati, il quartier generale della polizia, il parcheggio delle ambulanze. Sembra un paradiso terrestere Utoya, con i suoi pini che scendono fino all’acqua, le macchie di roccia e qualche striscia di sabbia, è bella anche sotto la pioggia battente e il cielo sempre più nero, un’oasi baciata dalla natura che solo la lucida follia di un pluriomicida ha potuto trasformare nel giro di un’ora nell’isola della morte.
«Mi spiace, non ci potete proprio andare». Il poliziotto è gentile ma fermo, anche un paio di barche locali partite per avvicinarsi vengono fatte tornare indietro. «Stiamo cercando altri superstiti, non sappiamo esattamente quanti fossero i giovani presenti, di quelli cercati dai genitori ne mancano ancora cinque o sei. No, non posso dirle niente. Sì, era vestito da poliziotto, questa cosa mi fa stare ancora più male, ci ha usato per uccidere, non è umano, è un mostro». Tra gli agenti qualcuno cede alla commozione, i più solo alla rabbia. Da ore stanno cercando nuovi superstiti – al momento i morti accertati sono 85 – ogni ora che passa la speranza diminuisce. Usano anche un piccolo sottomarino, girano senza sosta attorno all’isola, consolano i ragazzi che hanno perso un amico, telefonano ai genitori che ancora non sono arrivati.
Thor i genitori lo hanno trovato. Ha i pantaloni di tuta grigia e una maglietta azzurra, racconta anche lui quell’ora d’inferno che non dimenticherà  mai. «Ci siamo fidati, era la polizia, era lì per difenderci, che altro potevamo pensare? Quando ha iniziato a sparare ho sentito le urla, mi sono messo a correre come un pazzo, eravamo in tre, ci siamo buttati in mare, io mi sono nascosto in una specie di caverna tra le rocce, l’acqua fino alla gola, poi quando sono arrivate le barche ho nuotato, nuotato fino a quando mi hanno raccolto. Devo la vita alla gente di questo posto, non saprò mai come ringraziarli». Il padre lo stringe sulle spalle, la madre lo accarezza e non riesce a nascondere la commozione, vanno via scortati da un paio di poliziotti, tornano a casa, «proveremo a dimenticare».
Come Hana, come Thor, anche i racconti degli altri superstiti – i pochi che ancora sono a Sundvollen in attesa dei papà  e delle mamme – narrano il terrore, il panico, la morte. «Ha cominciato a sparare sull’isola, contro quelli che aveva raggruppati, poi ha sparato contro chi era fuggito in acqua, contro chi nuotava, sparava per uccidere», dice Elise che si è nascosta «proprio sotto la roccia» dove l’omicida sparava all’impazzata con la sua arma automatica. Racconta di come sia riuscita a telefonare ai genitori che hanno cercato di tranquillizzarla, che le hanno consigliato di «levarsi la giacchetta dai colori sgargianti» per non attirare l’attenzione.
«Come ha potuto, come ha potuto», ripete singhiozzando un ragazzo dalla carnagione mediterranea, figlio di uno dei tanti emigranti che la Norvegia ha accolto a braccia aperte, a cui ha dato una casa, un lavoro e una vita pacifica. «Come ha potuto sparare a chi era a terra, finire con un colpo di grazia chi non era ancora morto, come ha fatto ad uccidere così tante persone. Dove stava la polizia, perché non lo hanno ammazzato?». Una ragazza gli tende la mano, si abbracciano, anche lei ha visto in faccia l’orrore: «C’erano giovani a terra, c’era sangue, qualcuno faceva finta di essere morto, forse sperava di salvarsi. Io ero nascosta dietro un albero, c’erano tanti cespugli, ero paralizzata dalla paura. Poi ho alzato lo sguardo e ho visto che sparava ancora, proprio su quelli a terra. A quel punto ho chiuso gli occhi».
Erik ha solo quindici anni e si è salvato nuotando il più velocemente possibile. «Eravamo in tanti, non so, una decina forse, qualcuno non ce l’ha fatta. Sentivo gli spari, avevo capito che stava mirando verso di noi, ho continuato a nuotare fino a quando ho sentito delle braccia che mi tiravano su. Non so se ce l’avrei fatta ad arrivare fino a riva, qualcuno credo che ci sia riuscito, altri sono scomparsi in mezzo al fiordo». Si appoggia alla tenda gialla e verde che qualcuno ha lasciato in piedi proprio sulla riva che fronteggia l’isolotto, cerca di calcolare le distanze, «non sembra troppo lunga, ma non eravamo lì per fare un bagno».
Lì accanto uno dei locali, uno dei tanti che appena ha capito cosa stesse succedendo si lanciato in mare con la sua barchetta contribuendo a salvare molte vite, scuote la testa. «Se uno guarda da qui, magari pensa, sì, a nuoto si può anche fare. Ma quelli erano ragazzi in campeggio, avevano mangiato, magari anche bevuto qualche birra, e l’acqua qui è ghiacciata, non siamo mica su una spiaggia del Mediterraneo. E poi erano terrorizzati, c’era uno che gli sparava addosso. Quanti ne ho raccolti? Non ricordo bene, tutti quelli che ho potuto mettere in questa barchetta, sette, otto, non so, non ho avuto tempo per ragionare».
E’ durata un’ora e mezza la strage degli innocenti, decine di minuti lunghissimi che nel ricordo di chi li ha vissuti non sembravano finire mai. Un’ora e mezza di caccia all’uomo, sparando per uccidere, senza che nessuno sia riuscito ad intervenire per fermare quell’assassinio di massa. Quasi tutte le testimonianze concordano, un poliziotto (finto) che invitava i giovani a raggrupparsi, che all’improvviso tirava fuori da un borsone l’automatica e iniziava a sparare. C’è anche però chi parla di complici, chi ha sentito altri spari, da altre parti. Forse è solo suggestione e la polizia insiste sull’azione isolata.
Il giorno dopo è quello del cordoglio, dei pianti, della commozione e degli abbracci. Di polemiche non è ancora tempo, ma prima o poi, a mente fredda, qualcuno dovrà  provare a spiegare come tutto ciò sia stato possibile, come un uomo travestito da poliziotto abbia potuto andare avanti per novanta minuti a compiere la peggiore carneficina che la Norvegia di oggi ricordi.


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