“È Graviano il killer di Borsellino” i pm chiedono un nuovo processo

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PALERMO – La Procura di Caltanissetta sposa la ricostruzione di Gaspare Spatuzza e dà  un nome al killer che schiacciò il pulsante che fece saltare in aria la 126 imbottita di tritolo sotto casa della madre di Paolo Borsellino. Un altro corleonese di ferro: il 23 maggio 1992 a Capaci Giovanni Brusca, il 19 luglio in via d’Amelio Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio, lo stesso che a gennaio 94, in un bar di via Veneto a Roma, avrebbe detto a Spatuzza, suo uomo fidato, di «avere il Paese nelle mani grazie a quello di Canale 5 e al nostro compaesano Dell’Utri».
Un’accelerazione improvvisa, quella che spinse i vertici di Cosa nostra ad uccidere Paolo Borsellino a soli 57 giorni da Giovanni Falcone, causata dalla consapevolezza che Borsellino sapeva già  troppo di quella trattativa che la mafia aveva avviato con settori delle istituzioni per cercare di ottenere i benefici elencati nel “papello” presentato all’esordio di una stagione di sangue che sarebbe andata avanti per oltre un anno.
Ecco la ricostruzione della strage di via D’Amelio che i pm della Dda di Caltanissetta si accingono a presentare al procuratore generale Roberto Scarpinato a corredo della revisione dei processi fin qui celebrati che, con sentenza passata in giudicato, hanno consacrato una verità  fasulla portando a sette condanne all’ergastolo di persone che in quella strage non avrebbero avuto alcun ruolo. Verità  fasulla costruita grazie al racconto di un pentito fasullo, quel Vincenzo Scarantino, picciotto autoaccusatosi di aver rubato la macchina poi riempita di esplosivo, arrestato dagli investigatori del gruppo stragi guidato dallo scomparso questore Arnaldo La Barbera subito dopo la strage.
Il falso racconto di Scarantino, che deviò le indagini dalla cosca di Brancaccio – dice ora la nuova ricostruzione avallata dai magistrati di Caltanissetta – sarebbe stato indotto, a suon di minacce e violenze, proprio dai poliziotti di quel gruppo investigativo. Tre di loro, l’attuale questore di Bergamo Vincenzo Ricciardi, il dirigente della Mobile di Trieste Mario Bo e il dirigente della polizia postale di Milano Salvo La Barbera sono da mesi indagati a Caltanissetta per una lunga sfilza di reati e la loro posizione, in questi giorni al vaglio dei pm, si sarebbe fatta delicata.
I corleonesi, dunque. I servizi segreti e la loro presunta sede di Castel Utveggio non c’entrano. Nella grande mole di nuovi atti che i pm di Caltanissetta hanno raccolto nell’ultimo anno, oltre alle dichiarazioni di Spatuzza, che ha continuato a collaborare nonostante l’esclusione dal programma di protezione per la quale recentemente il tar ha accolto il suo ricorso, c’è anche il racconto di un altro pentito della cosca di Brancaccio, Fabio Tranchina. È lui a raccontare di aver personalmente accompagnato Graviano in via D’Amelio dietro un muro dove sarebbe stato appostato il resto del commando. E nuovi scenari aprono le dichiarazioni di Stefano Lo Verso, esponente della cosca di Villabate, uno di quelli che curò personalmente la latitanza di Provenzano. È lui a riferire una frase di Provenzano che gli avrebbe confidato: «La verità  sulle stragi la conosciamo in cinque. Due sono morti, gli altri tre siamo io, Riina e Giulio Andreotti».


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