Romano, sfiducia anche dal Pd ecco le accuse dei pentiti al ministro

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PALERMO – «Romano se ne deve andare e con lui tutto il governo». Pierluigi Bersani sintetizza così la mozione di sfiducia appena presentata in Parlamento, primi firmatari il segretario pd e Dario Franceschini. Ma nel pomeriggio, dopo aver passeggiato a braccetto con Berlusconi in aula e un faccia a faccia con il premier, il ministro dell’Agricoltura ribadisce: «Niente dimissioni, l’opposizione strumentalizza la mia vicenda perché sono quello che ha sventato la caduta del governo».
In attesa di conoscere la data dell’udienza preliminare in cui verrà  discussa la richiesta di rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa nei suoi confronti, Saverio Romano ha fretta di spiegare e confida nella Commissione antimafia per poter ribattere alle accuse dei collaboratori di giustizia vecchi e nuovi, da Francesco Campanella a Stefano Lo Verso, che lo indicano come uomo vicino alla famiglia mafiosa di Villabate, la più “politica” di Cosa nostra, guidata da quell’Antonino Mandalà , “l’avvocato”, fondatore di uno dei primi club di Forza Italia in Sicilia, poi condannato a otto anni per associazione mafiosa, che nel novero delle sue conoscenze vanta esponenti di primo piano della politica italiana, dal presidente del Senato Renato Schifani ad Enrico La Loggia, da Gianfranco Miccichè allo scomparso Gaspare Giudice e, appunto, Saverio Romano. Un rapporto, quello tra Mandalà  e Romano, di cui ha parlato a lungo l’ex presidente del Consiglio comunale di Villabate, Francesco Campanella, l’uomo che procurò a Bernardo Provenzano la carta d’identità  per recarsi a Marsiglia per l’intervento alla prostata. «Mandalà  – racconta Campanella – un giorno volle incontrare personalmente Saverio Romano per il tramite dell’avvocato Carmelo Cordaro, mi disse che avrebbe preso il posto come referente dell’onorevole Gaspare Giudice, ormai inaffidabile». E a Romano, Campanella avrebbe portato personalmente l’ambasciata del boss che chiedeva l’inserimento di un suo uomo, il commercialista Giuseppe Acanto, nella lista del Biancofiore per le Regionali 2001. «Romano mi assicurò il suo inserimento e mi disse di salutargli Mandalà ».
Campanella e Lo Verso conoscono molto bene la fitta ragnatela di rapporti politici della famiglia mafiosa di Villabate. E, se le accuse di Campanella hanno già  il suggello dell’attendibilità  della Cassazione nella sentenza che ha reso definitiva la condanna a sette anni dell’ex governatore siciliano Totò Cuffaro, quelle di Lo Verso sono sostanzialmente “in fieri”. Il mafioso che curò parte della latitanza di Bernardo Provenzano collabora con la Procura di Palermo dall’11 febbraio e più volte in queste settimane il pm Nino Di Matteo lo ha interrogato. I verbali di Lo Verso, finora rimasti fuori dall’inchiesta, potrebbero essere depositati dalla Procura in vista dell’udienza preliminare. Le nuove accuse in arrivo potrebbero condizionare la strategia difensiva del ministro, che potrebbe avanzare richiesta di rito abbreviato e giocarsi il processo con gli atti fin qui disponibili.


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L’attesa si dilata fino a questo pomeriggio. E il vuoto politico che accompagna la decisione della Corte di cassazione finisce per accentuare il sospetto di un passaggio decisivo in modo un po’ patologico. Il Pd rinvia le sue decisioni sul congresso perché non è d’accordo al proprio interno, ma anche perché aspetta di vedere come il Pdl reagirà al verdetto della Suprema corte.

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